Femminismo

"We Can Do
It!" (1943), poster di J. Howard Miller, comunemente associato a
"Rosie the Riveter
", icona della cultura popolare americana
Con il termine femminismo, generalmente, si
può indicare:
Il femminismo è di fatto, un
movimento complesso ed eterogeneo, che si è sviluppato con caratteristiche
peculiari in ogni paese ed epoca. Molti fattori contribuiscono a definire e
ridefinire il concetto di femminismo e le pratiche politiche ad esso connesse
(ad esempio classe, etnia, sessualità). Al suo interno ci sono quindi diverse
posizioni e approcci teorici, tant'è che ad oggi alcune studiose, teoriche e/o
militanti femministe parlano di femminismi.
In particolare esistono teorie
contrastanti riguardo l'origine della subordinazione delle donne ed in merito
al tipo di percorso che dovrebbe essere portato avanti per liberarsene: se
lottare solo per le pari opportunità tra uomini e donne, se criticare
radicalmente le nozioni di "identità sessuale" e "identità di genere", oppure - ancora
- se eliminare alla radice i ruoli e quindi tale subordinazione.
Il termine "femminismo" esiste e viene usato in
Europa da poco prima del XX secolo e le sue origini si possono
rintracciare in due ambiti diversi[2]:
In questo
secondo ambito fu introdotto nell'uso e nel senso corrente grazie a Hubertine Auclert che lo
utilizzò nella sua rivista «La Citoyenne», pubblicata
dal 13 febbraio 1881. Successivamente il termine apparirà
prima in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti.
Con tale nome il movimento femminista è venuto alla
ribalta internazionale negli anni sessanta del Novecento, con l'intento
di modificare radicalmente la divisione sessuale dei ruoli maschili e femminili
e quindi di rimettere in discussione, in tutti gli aspetti del vivere
associato, una gerarchizzazione umana che riteneva gli individui di maggiore o
minore valore sulla base dei rapporti di potere basati sul genere e sulle relative proiezioni sociali
e politiche. Gli anni settanta hanno visto il termine
contestato: alcune parti dei movimenti delle donne rifiutarono di definirsi
femministe in relazione all'associazione del termine con l'emancipazionismo[4]. Recentemente molte attiviste
non-occidentali preferiscono usare il termine "movimento delle donne"
(haraka al-nissa'wiyya)" rifiutando il termine "movimento
femminista" (al-haraka al-nassa'wiyya).[5].

"Società
patriotttica e della beneficienza delle amiche della
verità"

La Déclaration di Olympe de Gouges
Una delle
prime sostenitrici dell'emancipazione femminile è Olympe de Gouges (1748-1793) che, con la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina
del 1791, dedicato a Maria Antonietta, pose i suoi
contemporanei di fronte al ruolo negato nello spazio pubblico alle donne. La de Gouges
scontò il suo moderatismo politico filo-monarchico e girondino (fu denunciata dalle donne
repubblicane di Parigi) finendo sulla ghigliottina nel 1793. Accanto a lei operò in difesa dei
diritti delle donne Etta Palm d'Aelders
di origine olandese, figura ambigua di femminista e spia al servizio degli Orange e della Francia rivoluzionaria.
In quegli stessi anni, nel
1792, l'inglese Mary Wollstonecraft
(1759-1797) scriveva nella sua A Vindication of the Rights of
Woman (Rivendicazione dei diritti della donna) che "è ora di
effettuare una rivoluzione nei modi di vivere delle donne - è ora di
restituirle la dignità perduta - e di far sì che esse, in quanto parte della
specie umana, operino riformando se stesse per riformare il mondo".[6]
Nata in una
famiglia povera, la Wollstonecraft aveva studiato da
autodidatta e si era resa economicamente indipendente[7]. Comprese subito la grande
importanza che la Rivoluzione francese poteva assumere per
lo sviluppo dell'eguaglianza sociale e civile dei cittadini, difendendola nella
sua A Vindication of the Rights
of Men dagli attacchi del reazionario
connazionale Edmund Burke e stabilendosi, alla fine del
1792, proprio in Francia. Qui convisse con lo scrittore e
patriota statunitense Gilbert Imlay,
dal quale ebbe una figlia, Fanny Imlay.
Lasciata dal precedente compagno, ebbe una relazione con William Godwin e
morì dando alla luce la futura scrittrice Mary Shelley. A causa della sua condotta
di vita, per quanto possibile libera dai pregiudizi dell'epoca, lo scrittore Horace Walpole la
definì «una iena in gonnella».[8]

John Opie: Mary Wollstonecraft
Le
rivendicazioni della Wollstonecraft potevano
corrispondere ai principi della rivoluzione guidata dalla borghesia francese.
Secondo la Wollstonecraft solo le donne della classe
media potevano elevarsi dalla condizione di subordinazione in cui erano tenute
da un'educazione improntata sui falsi valori maschili, secondo i quali la donna
sarebbe stata «naturalmente» inferiore all'uomo. Un'eguale educazione impartita
fin dall'infanzia, senza distinzione di sesso, avrebbe invece eliminato alla
radice tale problematica.[8]
Le tematiche
dell'emancipazione sorsero, quindi, proprio nell'Inghilterra della Gloriosa rivoluzione e del parlamentarismo, negli Stati Uniti che si erano emancipati dalla
madre-patria e avevano formulato la prima dichiarazione dei diritti dell'uomo
inserita nella stessa dichiarazione d'indipendenza, e nella Francia, che aveva ripreso quella dichiarazione nel momento di dar vita alla
grande Rivoluzione contro l'Ancien Régime.

Operaia al
lavoro in fabbrica
In tutto
l'arco del XIX secolo si assisté ad un sempre più
intenso spostamento di grandi masse di persone dalla campagna alle periferie
delle città dove sorgevano nuove fabbriche. I vecchi laboratori artigianali, su
cui spesso si era fondata la sussistenza di intere famiglie, vennero in parte
abbandonati perché incapaci di sostenere la concorrenza della grande
manifattura, dove lavoravano, accanto agli uomini, anche le donne e i bambini.
Al tradizionale mercato degli oggetti si aggiunse, quindi, il così detto
"mercato del lavoro", dove uomini e donne entrarono in concorrenza
tra di loro, vendendo al ribasso l'unica merce che possedevano, l'energia delle
loro braccia. Per molte donne il lavoro scarsamente retribuito della fabbrica
si aggiunse così al consueto lavoro, non retribuito, della cura della casa e
della famiglia.
Le donne
delle benestanti famiglie borghesi non dovettero rapportarsi con questi nuovi
panorami: spesso, difatti, non avevano necessità di impegnarsi personalmente in
un'attività lavorativa poiché mantenute dai mariti, la cura della casa e spesso
anche dei figli, invece, era riservata alla servitù sottoposta al loro comando:
di qui l'appellativo di «regine della casa». In questo contesto l'arte del
ricamo non rappresentava un'iniziativa propriamente economica, bensì una sorta
di arte domestica, in cui le donne potevano mettere in mostra il proprio gusto,
impreziosendo al più gli arredi casalinghi. Più o meno stesso discorso valeva
per l'abilità culinaria, che gratificava il capofamiglia di ritorno dal lavoro,
gravato da pensieri dai quali le consorti erano generalmente escluse. Le
numerose gravidanze, spesso a rischio della vita, considerando la tecnologia
medica dell'epoca, servivano a perpetuare la trasmissione del nome e dei beni
di famiglia agli eredi maschi: la nascita di una femmina veniva tradizionalmente
considerata una disgrazia.

Boldini:
Aristocratica francese
Per le donne
appartenenti alla classe media sarebbe stato deprecabile cercare un lavoro
fuori dall'ambiente familiare, perché ciò avrebbe significato esporle al
contatto di estranei, degradarle al livello delle «donne del popolo» e
insinuare che il padre o il marito non erano in grado di mantenerle, gettando
su di essi un disonorevole discredito. Un'attività intellettuale era resa
difficile, oltre che dal generale scetticismo riguardo alle loro effettive
capacità, dalla loro istruzione incompleta, perché esse non avevano diritto di
accesso alle scuole superiori e perciò anche all'esercizio delle professioni
liberali.[9] La loro dipendenza economica
dall'uomo le escludeva per legge[9] dalla gestione del patrimonio
familiare e dal diritto di paritaria eredità con gli altri beneficiari maschi.
Infine, come a riassumere la loro condizione di subordinazione e di ininfluenza
nella vita della nazione, erano escluse dal diritto di voto e di rappresentanza parlamentare.
Se dunque
tutte le donne, indipendentemente dalla loro connotazione sociale, vivevano una
condizione di discriminazione, l'appartenenza a classi sociali diverse
produceva problemi ed esigenze differenti e perciò distinti programmi di
rivendicazione. Le donne operaie, direttamente impegnate nel lavoro
di fabbrica, fecero confluire la loro
protesta all'interno delle rivendicazioni del movimento operaio, dal quale - quindi -
non si distinsero; le donne della classe media, che invece non erano
generalmente inserite nel mondo del lavoro ma del quale volevano far parte,
produrranno un movimento d'opinione formato di sole donne. Nell'Ottocento
nacquero pertanto due distinte correnti: il femminismo liberale, che ha nella conquista dei diritti civili il suo principale
obbiettivo, e il femminismo socialista, che punta a rivendicazioni sindacali e vede nella rivoluzione e nella conseguente
instaurazione di una società socialista la condizione necessaria per realizzare
una reale, e non solo formale, liberazione delle donne.[10]

Elizabeth Cady Stanton
Nel luglio
del 1848, a Seneca Falls,
presso New York, si tenne un'assemblea di circa
trecento donne, nella quale Elizabeth Cady Stanton
(1815-1902) formulò una dichiarazione dei
diritti delle donne all'eguaglianza. Vi si affermava che uomini e donne sono
eguali e «dotati dal loro Creatore di diritti inalienabili; che tra questi vi
sono la vita, la libertà, il perseguimento della felicità». Il governo deve
garantire al popolo tali diritti e, qualora non lo facesse, «è diritto di
quelli che ne soffrono di rifiutargli obbedienza e di insistere per istituire
un nuovo governo».
Se si giunge a forme di dispotismo,
il governo va rovesciato: «tale è stata la tolleranza paziente delle donne
sotto questo governo, e tale è ora la necessità che le costringe a richiedere
la condizione di eguaglianza alla quale esse hanno diritto. La storia
dell'umanità è una storia di ripetute offese e usurpazioni degli uomini nei
confronti delle donne, allo scopo di istituire su di esse una tirannia
assoluta».[11]

Stuart Mill e Harriet Taylor
Dalla
collaborazione tra Harriet Taylor (1808-1858) e John Stuart Mill
(1806-1873) derivarono due importanti saggi
sulla questione femminile. Ne L'emancipazione delle donne (The Enfranchisement of Women), del 1851, la Taylor, premesso il diritto
naturale di ogni essere umano che viva in società a esprimere liberamente le
sue capacità, osserva che l'esercizio del potere politico conquistato dagli
uomini ha provocato la condizione di sudditanza in cui le donne hanno vissuto e
vivono nelle società che si sono succedute nella storia dell'umanità.
L'emancipazione della donna sarà possibile quando essa potrà godere degli
stessi diritti concessi all'uomo - all'istruzione, all'esercizio delle
professioni, alla partecipazione amministrativa e politica - che però le sono
ancora negati.
Alla diffusa obiezione che la sua
natura biologica assegnerebbe in modo esclusivo alla donna la cura dei figli e
della famiglia, impedendole obbiettivamente il pieno esercizio di quei diritti,
la Taylor risponde che con la liberazione dagli impegni familiari - da
assegnare alla cura di un apposito personale domestico femminile - la donna
potrà conseguire la sua piena emancipazione. Una reale emancipazione non può
allora essere ottenuta da tutte le donne, ma solo da quelle che potranno
liberarsi dai più specifici obblighi familiari: le donne della classe media.
Ne L'asservimento delle donne
(The Subjection of Women), pubblicato nel 1869, Stuart Mill
individua la causa della mancanza di diritti civili della donne nella storica
subordinazione della donna all'uomo, la quale è una forma di schiavitù
espressione del più generale rapporto schiavi-le che è stato una delle forme di
organizzazione sociale del passato. Le società antiche sono tramontate da
secoli e la schiavitù è stata da poco abrogata anche in America, ma l'asservimento delle donne,
oggi come ieri, persiste.

Casa-mercato di schiavi ad Atlanta, 1864
Questa forma
persistente di schiavitù - afferma Stuart Mill -
viene esercitata da tutti gli uomini su tutte le donne e si realizza innanzi
tutto e in forma compiuta nel luogo privato della famiglia. Essa è resa
possibile dalla maggior forza muscolare dell'uomo, ma si esercita anche con
l'affetto: «Gli uomini non vogliono solamente l'obbedienza delle donne,
vogliono anche i loro sentimenti. Tutti gli uomini, tranne i più brutali,
vogliono avere nella donna che a loro è più legata non una schiava forzata, ma
una schiava volontaria, non una pura e semplice schiava, ma una favorita».
L'idea che
tale servitù sia necessaria e naturale è stata inculcata nelle menti delle
donne fin dall'infanzia. Esse sono state educate a pensare di dover essere
l'opposto dell'uomo: non devono esprimere «una libera volontà e un
comportamento auto-controllato, ma una sottomissione e una subordinazione al
controllo altrui. Tutte le morali dicono che è dovere delle donne, e tutti i
sentimenti correnti affermano che è proprio della loro natura vivere per gli
altri, compiere una totale abnegazione di sé e non avere altra vita che la vita
affettiva».[12]
L'asservimento
della donna all'uomo si dimostra una contraddizione pratica dell'affermazione
teorica dell'eguaglianza dei diritti umani: «La subordinazione sociale delle
donne si configura come un fatto unico nelle moderne istituzioni sociali; una
rottura isolata di quella che è divenuta la loro legge fondamentale; l'unica
reliquia di un vecchio mondo di pensiero e di pratica che è esploso in ogni
altro aspetto».[13]
Nell'ambito
del femminismo liberale, in Italia, il movimento era capeggiato dalla nobile
marchesa Clelia Romano Pellicano di Gioiosa Jonica
nella locride,
scrittrice, giornalista vissuta tra la fine dell'800 e i primi del '900. Si
batteva per la rivendicazione dei diritti delle donne, al voto delle donne, dei
diritti delle donne all’istruzione, era dedica all’affermazione di una
dimensione extra domestica delle donne, e della rivendicazione del ruolo
femminile nella stampa dell’epoca. Attraverso le sue inchieste giornalistiche
pubblicate sulla rivista Nuova Antologia e La Donna, denunciava la
condizione delle donne nelle industrie, e nella società civile dell'epoca.
Membro del Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, partecipò a numerosi
congressi nazionali e internazionali in Europa, per la rivendicazione dei
diritti della donna, nel 1902 partecipò al Congresso Internazionale Femminile a
Londra, degna di nota fu la sua dichiarazione augurale: «Ricordatevi voi
donne d'ogni razza, d'ogni paese - da quelli dove splende il sole di mezzanotte
a quelli in cui brilla la Croce del Sud - qui convenute nella comune
aspirazione alla libertà, all'uguaglianza, strette da un nodo di cui il voto è
il simbolo, ricordatevi che il nostro compito non avrà termine se non quando
tutte le donne del mondo civilizzato saranno sempre monde dalla taccia di
incapacità, d'inferiorità di cui leggi e costumi l'hanno bollate finora!».
Attraverso le sue conoscenze politiche e culturali, cercò di promuovere il diritto
di voto per le donne in Italia sollecitando il Parlamento Italiano, con
congressi, petizioni e iniziative totalmente nuove e innovative per una donna
dell'epoca in Italia. Clelia Pellicano, fu una pioniera del movimento
femminista italiano ed europeo, portò alla ribalta la battaglia femminile per
la parità di diritti e doveri, e merita d'essere ricordata come esempio d'una
femminilità coraggiosa e dinamica che trasmette valori etici e di parità dei
diritti.[14]

«La Femme
libre»
I temi
dell'emancipazione femminile appaiono nella riflessione dei primi socialisti
utopisti, come Robert Owen e Charles Fourier, il quale enunciò la tesi
che il grado di emancipazione della donna misura il progresso generale della
società, si manifestarono con forza in Francia con Flora Tristan e
nelle donne che appoggiano la Rivoluzione del 1848: Désirée Gay, fondatrice con Marie-Reine Guindorf de «La
Femme libre» (La donna libera), il primo giornale femminista della storia, Suzanne Voilquin,
Pauline Roland, Jeanne Deroin.
Esse uniscono le richieste di eguaglianza giuridica e di riforme civili -
diritto di voto, introduzione del divorzio - alle rivendicazioni economiche e
alle provvidenze sociali - aumenti salariali e diritto al lavoro. Richieste
che, prima vanificate dal conservatorismo della Repubblica borghese e poi dalla
reazione napoleonica, si ripresenteranno nella breve stagione della Comune di Parigi.
Anche Marx prese
posizione sul problema della condizione femminile. Da Fourier riprese l'idea
secondo la quale «il progresso sociale si può misurare con esattezza dalla
posizione sociale del bel sesso»,[15] e vide nello sviluppo
capitalistico il fattore di trasformazione degli stessi rapporti tra i sessi:
«per quanto terribile e repellente appaia la dissoluzione della vecchia
famiglia entro il sistema capitalistico, cionondimeno la grande industria crea
il nuovo fondamento per una forma superiore della famiglia e del rapporto tra i
due sessi, con la parte decisiva che essa assegna alle donne» nel processo
produttivo fuori dalla sfera domestica. Marx
giudicava «la composizione del personale operaio combinato con individui d'ambo
i sessi e delle età più differenti», per quanto «spontanea e brutale, cioè
capitalistica», fonte bensì «di corruzione e di schiavitù», ma che si sarebbe
poi rovesciata «in fonte di sviluppo di qualità umane».[16]

Friedrich Engels
Il contributo
più organico fornito dal marxismo al dibattito sull'emancipazione
della donna fu il libro di Friedrich Engels
(1820-1895) L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello
Stato, pubblicato nel 1884, che tiene conto delle ricerche di Bachofen (1815-1887) sul matriarcato e di Lewis Henry Morgan (1818-1881) sulle società antiche. Quest'ultimo
aveva tracciato nella sua Ancient Society,
del 1877, una sistemazione dell'evoluzione del
genere umano, da lui distinto in stato selvaggio, o del periodo paleolitico, della barbarie, o del neolitico, e della civiltà, ossia
le antiche società che conoscono la scrittura, sono divise in classi e sono rette da una forma statale nella quale si esercitano i
poteri politici, militari, amministrativi e religiosi.
Secondo Engels, dalla generale promiscuità
sessuale che caratterizza le prime aggregazioni tribali si passa all'esclusione
dei rapporti sessuali tra genitori e figli e successivamente a quella tra fratelli
e sorelle della medesima tribù. Nel primo paleolitico, caratterizzato da
un'economia basata sulla raccolta e sulla caccia, non esiste ancora la
«famiglia» modernamente intesa, né subordinazione all'uomo della donna, che
viene anzi onorata quale fonte di vita e di fecondità: «l'amministrazione
comunistica nella quale le donne, per la maggior parte, se non tutte,
appartengono a una medesima gens, mentre gli uomini provengono da
diverse gentes, è il fondamento oggettivo del
predominio delle donne, generalmente diffuso all'epoca delle origini».[17]
Un passo
successivo fu, secondo Bachofen ed Engels, il matrimonio di coppia, cioè «la relazione,
temporanea o durevole, di una donna con un solo uomo [...] la forma di famiglia
caratteristica per la barbarie, come il matrimonio di gruppo lo è per lo stato
selvaggio, e la monogamia per la civiltà».[18] Quando nuove forze motrici
sociali entrarono in azione, si compì il passo ulteriore verso il matrimonio
monogamico.

Johann Jakob Bachofen
Il
progressivo passaggio dalla caccia e dalla raccolta all'allevamento del
bestiame, poi alla lavorazione dei metalli, alla tessitura, all'agricoltura,
alle guerre per il controllo di territori più estesi e infine al possesso dei
prigionieri in qualità di schiavi produsse il mutamento delle condizioni
precedenti: l'accrescersi delle ricchezze diede all'uomo, che nella divisione
del lavoro all'interno della famiglia aveva il compito di procurare gli
alimenti ed era perciò proprietario dei mezzi di lavoro necessari, una
posizione più importante della donna nella famiglia di coppia. Secondo il
diritto matriarcale, tuttavia, «il patrimonio doveva rimanere nella gens
[...] ai consanguinei per parte di madre. I figli dell'estinto però non
appartenevano alla sua gens, ma a quella della loro madre [...] essi
ereditavano dalla madre [...] ma non potevano ereditare dal padre poiché essi
non appartenevano alla sua gens, e il suo patrimonio doveva rimanere in
questa gens. Alla morte del possessore di armenti, i suoi armenti
sarebbero quindi passati, anzitutto, ai suoi fratelli e sorelle, e ai figli
delle sue sorelle [...] i figli suoi però erano diseredati».[19]
L'uomo allora abrogò il diritto matriarcale per
favorire i propri figli: «bastò semplicemente decidere che nel futuro i
discendenti dei membri di sesso maschile rimanessero nella gens e ne
fossero però esclusi quelli dei membri di sesso femminile [...] fu introdotta
la discendenza in linea maschile e il diritto ereditario patriarcale».[20] Fu una rivoluzione epocale: «il
rovesciamento del matriarcato segnò la sconfitta sul piano storico universale
del sesso femminile. L'uomo prese nelle mani anche le redini della casa, la
donna fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e semplice
strumento per produrre figli».[21]
Rapido è il passaggio dalla famiglia di coppia alla
famiglia monogamica, nella quale il vincolo non è più dissolubile ad arbitrio -
l'uomo può però ripudiare la moglie se gli è infedele o incapace di generargli
figli - ed è fondata sul dominio maschile che pretende figli certi perché
dovranno ereditare il suo patrimonio. La forma classica di tale famiglia si
presenta in Grecia, dove anche il figlio adulto può
comandare la madre,[22] il marito si porta a letto le
schiave che convivono con lui sotto gli occhi della moglie,[23] e i maschi generati da tali
unioni hanno diritto al nome e all'eredità.[24] Naturalmente, il matrimonio è
realmente monogamico soltanto per la donna. Accanto al commercio sessuale con la
schiava, che è una forma di prostituzione coatta, appare nella società antica
l'aperta prostituzione della donna libera: così, mentre la donna è reclusa
nella casa patriarcale, la sessualità dell'uomo si esprime sia dentro la
famiglia allargata alle schiave, sia fuori di essa.

Lewis Henry
Morgan
La moderna
famiglia è naturalmente diversa da quella antica: trasformando tutte le cose in
merci, la produzione capitalistica «dissolse tutti gli antichi rapporti
tradizionali e mise al posto del costume ereditario e del diritto storico la
compravendita e il "libero" contratto».[25] Anche il matrimonio divenne un
contratto e, pur rimanendo un matrimonio di classe, essendo il matrimonio
borghese fondato sul calcolo e sulla convenienza, «all'interno della classe
venne concesso agli interessati un certo grado di libertà di scelta».[26]
La grande industria ha poi aperto alla donna operaia
la via della produzione sociale, ma se essa vi si inserisce, non è più in grado
di assolvere i doveri familiari, e viceversa, come rilevavano anche i fautori
liberali dell'emancipazione. Per Engels,
«l'emancipazione della donna ha come prima condizione preliminare la
reintroduzione dell'intero sesso femminile nella pubblica industria, e ciò
richiede a sua volta l'eliminazione della famiglia monogamica in quanto unità
economica della società».[27]
La monogamia sorse storicamente quando grandi
ricchezze si concentrarono nelle stesse mani: essa scomparirà quando le
ricchezze saranno socializzate: «col passaggio dei mezzi di produzione in
proprietà comune, la famiglia singola cessa di essere l'unità economica della
società. L'amministrazione domestica privata si trasforma in un'industria
sociale. La cura e l'educazione dei fanciulli diventa un fatto di pubblico
interesse».[28] Le unioni saranno fondate
unicamente sull'amore sessuale individuale «quando vi sarà una generazione di
uomini i quali, durante la loro vita, non si saranno mai trovati nella
circostanza di comperarsi la concessione di una donna con il denaro o mediante
altra forza sociale, e una generazione di donne che non si saranno mai trovate
nella circostanza né di concedersi a un uomo per qualsiasi motivo che non sia
vero amore, né di rifiutare di concedersi all'uomo che amano».[29]

Voltairine de Cleyre
Il movimento anarchico non si differenzia
sostanzialmente da quello socialista riguardo al tema dell'emancipazione
femminile, sostenendo che solo un profondo rivolgimento sociale avrebbe potuto
realmente liberare le donne dall'oppressione patriarcale. Per un anarchico è il
principio di autorità la fonte di ogni mancanza di libertà ed è pertanto
inutile ed equivoco chiedere allo Stato riconoscimenti che per sua natura non può
dare.
Non già che
tutti gli anarchici e i socialisti appoggiassero, in linea di principio,
l'eguaglianza tra uomo e donna: Proudhon (1809-1865) sosteneva l'inferiorità naturale
della donna e affermava che la donna avrebbe dovuto occuparsi unicamente della
casa e della famiglia. A questo proposito ebbe una polemica con Jeanne-Marie Poinsard, alias Jenny d'Héricourt
(1809-1875) comunista rivoluzionaria, che nel 1856 lo aveva attaccato nell'articolo Il
signor Proudhon e la questione delle donne.
La d'Héricourt
fu difesa dall'anarchico francese, emigrato negli Stati Uniti, Joseph Déjacque
(1821-1864). Nel suo pamphlet De l'être humain mâle
et femelle (Sull'essere
umano maschio e femmina), pubblicato nel 1857 in forma di lettera indirizzata a Proudhon, lo chiamò «anarchico del compromesso, liberale e
non libertario», rimproverandogli di volere «il libero scambio per il cotone e
le candele, e preconizzate sistemi che proteggano l'uomo contro la donna nella
circolazione delle passioni umane; gridate contro gli alti baroni del capitale
e volete riedificare l'alta baronia del maschio sulla donna vassalla».[30]

Emma Goldman
Il movimento
femminile anarchico mosse i suoi primi passi con Voltairine de Cleyre (1866-1912) e si sviluppò a partire dalla fine
del secolo con Emma Goldman (1869-1940) e Lucy Parsons (1853-1942), producendo durante la guerra civile spagnola, dall'aprile 1936 al febbraio 1939 una tra le classiche organizzazioni
del movimento libertario iberico, le Mujeres Libres, e
l'omonimo periodico. Il movimento in realtà nasceva già nel 1934 a Barcellona
come Grupo Cultural Femenino,
coinvolgendo Lucía Sánchez Saornil,
Mercedes Comaposada Guillén
e Amparo Poch y Gascón, e sarà l'embrione della futura organizzazione, che
crescendo rapidamente, nel 1938 conterà già più di 20000 aderenti.
Anche a Emma Goldman non
interessarono le iniziative delle donne borghesi a favore del diritto di voto,
ma vide nello Stato il braccio armato della società patriarcale e divisa in
classi.[31] Nel 1897 scriveva: «Io chiedo l'indipendenza
della donna, il suo diritto di mantenere se stessa, di vivere per se stessa, di
amare chi e quanti vuole. Chiedo libertà per entrambi i sessi, libertà di
azione, libertà nell'amore e nella maternità».[32]
Infermiera di
professione, era fautrice dell'educazione delle donne in materia di controllo
delle nascite, alternativa positiva all'aborto praticato spesso e clandestinamente
come tragica conseguenza di infelici condizioni sociali. Sostenne l'amore
libero, criticò l'istituzione matrimoniale e il fanatismo religioso. Vide
nell'uscita dal capitalismo la soluzione per l'emancipazione, non solo
femminile, ma di tutta l'umanità.
La storia del femminismo
di matrice libertaria è variegato per epoche e paesi. Nel corso del successivo
XX secolo vi furono molte iniziative, che, a fronte di un attenuarsi
dell'attenzione allo specifico tema femminista, in teoria sempre valido in
tutte le manifestazioni del pensiero anarchico novecentesco, risollevarono la
questione.
Giova menzionare il
collettivo Mujeres Creando (donne che
creano) boliviano che partecipa a varie opere contro
la povertà, tra propaganda, teatro di strada, televisione e l'azione diretta.
Il gruppo è stato fondato nel 1992 da Julieta Paredes, Maria Galindo, e Mónica Mendoza.
Mujeres Creando
pubblica una rivista, Mujer Pública, produce un programma radiofonico settimanale,
e gestisce un locale chiamato Virgen de los Deseos con sede a La Paz, che fornisce alloggio, cibo,
istruzione e laboratori di artigianato per le donne per strada. Per il gruppo,
il clima omofobo e totalitaria della Bolivia durante gli anni '80, dove
l'eterosessualità era ancora il modello e il femminismo fonte di divisioni, la
partenza dell'iniziativa ha posto alcuni problemi con la sinistra tradizionale.
Ha guadagnato l'attenzione internazionale a causa del loro parziale
coinvolgimento nella occupazione del 2001 della Agencia
de Supervisión de Bancos de
Bolivia per conto di Deudora,
un'organizzazione a favore di chi è in debito con istituti di microcredito. Gli occupanti, armati di
dinamite e bottiglie molotov, hanno chiesto la cancellazione totale del debito
e ha ottenuto qualche successo limitato. Mujeres
Creando ha negato che i membri abbiano partecipato all'occupazione.
I movimenti
di matrice libertaria hanno poi attinto da tutto un secolo di storia e
iniziative femministe, miscelando temi sensibili, dalla cultura pacifista alla
lotta omofobica, generando, al di là delle idee,
tutta una forma di manifestazioni esteriori dal Cheerleading radicale della Florida, ora diffuso negli
Stati Uniti, Canada, Europa e oltre, per promuovere un messaggio radicale in un
modo media-friendly, alle varie forme di squatting e
occupazione come il movimento riferentesi al CSA Eskalera Karakola di Madrid.

Theodore Molkenboer,
1918: Fammi entrare e porterò una nuova luce
In Inghilterra, nel 1897 Millicent Fawcett (1847-1929) fondò la National Union
of Women's Suffrage per
ottenere il diritto di voto alle donne: a questo scopo l'organizzazione svolse
opera di proselitismo per convincere gli uomini, i soli che legalmente
potessero concedere tale diritto. Al fallimento della National Union seguì nel 1903 la creazione della Women's Social and Political
Union da parte di Emmeline Pankhurst (1858-1928) e delle figlie Christabel (1880-1958) e Sylvia (1882-1960), decise a utilizzare mezzi più
energici e spettacolari.

La morte di
Emily Davison nel derby di Epsom
Nel 1905, le «suffragette» Christabel
e Annie Kenney (1879-1953) furono arrestate e incarcerate per
aver gridato slogan in favore del diritto di voto durante una riunione
del Partito liberale. Seguirono altre manifestazioni e arresti: in carcere, le
manifestanti attuarono lo sciopero della fame, e il governo fu costretto a
emanare nel 1913 il The Prisoners
Act che prevedeva il rilascio della scioperante
quando le sue condizioni di salute si fossero fatte critiche, fatta salva la
sua successiva incarcerazione. Ancora nel 1913 la suffragetta Emily Davison (1872-1913) rimase uccisa nel tentativo di
fermare il cavallo del re Giorgio V, durante lo svolgimento del
tradizionale derby di galoppo a Epsom.[33]
Durante la Prima guerra mondiale, il movimento si
divise in due: la WSPU di Emmeline e Christabel Pankhurst appoggiò la
guerra, al contrario della socialista Women's
Suffrage Federation di
Sylvia Pankhurst. Nel 1918, il Parlamento britannico votò la Representation of the People Act
che accordava il diritto di voto alle donne benestanti con più di 30 anni. Nel 1928 tutte le donne inglesi ottennero il
diritto di voto. Il primo paese ad accordare alle donne il diritto di voto fu
la Nuova Zelanda, nel 1893, grazie alle iniziative di Kate Sheppard (1847-1934). La Russia lo concesse nel 1918, gli Stati Uniti nel 1919, la Spagna e il Portogallo nel 1931, la Francia nel 1944, l'Italia nel 1946, la Grecia nel 1952 e la Svizzera soltanto nel 1971.

Virginia
Woolf
L'emergenza
della Grande guerra frenò il movimento femminile e l'immediato dopoguerra vide
il conseguimento, in pochi ma importanti paesi, degli obiettivi per i quali le
due maggiori correnti si erano battute: il diritto di voto nei paesi
anglosassoni e la Rivoluzione socialista in Russia, oltre al
diritto all'istruzione superiore e all'esercizio delle professioni liberali in
diversi paesi. Per quasi cinquant'anni l'opinione pubblica mondiale non parlerà
di femminismo, ma in questo periodo di riflusso alcune scrittrici presentarono
riflessioni e formularono tesi di grande importanza che saranno riprese e
sviluppate quando apparirà la «seconda ondata» femminista.
Virginia Woolf (1882-1941) scrisse il saggio Three Guineas (Le tre ghinee) nel 1938, quando ormai si annunciava in Europa
un nuovo e più tremendo conflitto. La scrittrice immagina che un'associazione
pacifista maschile le chieda un contributo per finanziare iniziative che
possano scongiurare le minacce di guerra: la Woolf possiede tre ghinee, e
decide di ripartirle in tre diverse opere di beneficenza, che raggiungano
tuttavia il medesimo risultato di prevenire la guerra.
Una ghinea andrà a uno di quei pochi
e poveri colleges femminili che stavano allora
sorgendo in Inghilterra, a condizione che vi si insegnino «la medicina, la
matematica, la musica, la pittura, la letteratura. È l'arte dei rapporti umani;
l'arte di comprendere la vita e la mente degli altri, insieme alle arti minori
che le completano: l'arte di conversare, di vestire, di cucinare».[34] Sono le arti che favoriscono la
pace perché mettono insieme gli esseri umani, che s'insegnano con poca spesa e
che anche i poveri possono esercitare. Nel college non dovranno essere
insegnate quelle altre arti che dividono, che opprimono e che producono le
guerre, «l'arte di governare, di uccidere, di accumulare terre e capitale».[35]
La seconda ghinea andrà a
un'associazione che favorisce l'ingresso delle donne alle libere professioni,
purché non siano professioni gestite o influenzate direttamente da uomini. Se
tutte le professioni potessero essere esercitate dalle donne, esse ne sarebbero
trasformate grazie al loro particolare, diverso, modo di essere, e di
qui potrebbe venire un aiuto importante a scongiurare la guerra.[36]

Operaie
impiegate nella produzione bellica
La terza
ghinea andrà senz'altro all'associazione pacifista maschile. Sarebbe però
opportuno, afferma la Woolf, che esistesse anche un'associazione femminile
pacifista: la si potrebbe chiamare la «Società delle Estranee». Sarà formata da «figlie
di uomini colti» e dovrà essere molto diversa dalle analoghe
associazioni: «non avrà alcuna sede, alcun comitato, alcuna segreteria; non
convocherà riunioni, non organizzerà convegni». Non vi si terranno cerimonie e
non si presteranno giuramenti, e il primo dovere delle aderenti sarà quello di
non combattere mai con le armi e di rifiutarsi, in caso di guerra, di
fabbricare armi e di prestarsi a fare le infermiere, come accadde nella guerra
precedente.
Vi è poi un
altro dovere, il più importante, difficile e in sintonia con il nome che
l'associazione si è data: si tratta «non di incitare i fratelli a combattere, e
neppure di cercare di dissuaderli, bensì di mantenere un atteggiamento di
totale indifferenza». L'indifferenza nasce dai fatti, ed è «un fatto che la
donna non è in grado di capire l'istinto che spinge il fratello a combattere,
la gloria, l'interesse, la virile soddisfazione che il combattimento gli
offre». L'istinto del combattimento è una caratteristica sessuale che lei non
può condividere - forse è il corrispondente maschile dell'istinto materno - e
che perciò non può nemmeno giudicare. Questa è la ragione dell'atteggiamento di
indifferenza che occorre tenere di fronte a «un istinto completamente estraneo
a lei, tanto estraneo quanto sono riusciti a renderlo secoli di tradizione e di
educazione. Questa è una distinzione fondamentale e istintiva su cui può
poggiare l'indifferenza».[37]
Non vi è, nella Woolf, la
preoccupazione di rimarcare la necessità dell'eguaglianza tra i sessi, ma vi è
la sottolineatura di una differenza che le appare positiva, perché deve
comportare il rifiuto di una cultura non condivisibile, né accettabile, ma
invasiva, perché è la cultura dominante: la differenza uomo-donna deve
generare nella donna l'indifferenza per i valori politici e morali della
cultura maschile. Un tema, questo, che sarà al centro della riflessione del
femminismo di «seconda ondata».

Le deuxième sexe, 1949
Il voluminoso
saggio Le deuxième sexe
(Il secondo sesso) di Simone de Beauvoir
(1908-1986) apparve nel 1949. La Beauvoir,
legata allo scrittore e filosofo Jean-Paul Sartre (1905-1980), non era, per sua stessa
dichiarazione, propriamente una femminista, anche se darà poi il suo sostegno
al movimento femminile, ma era un'esistenzialista che, da questa
prospettiva, indagava sulle cause della condizione di inferiorità in cui si
trova la donna e sulle sue possibili vie di uscita.
Ogni essere
umano compie durante la sua vita innumerevoli scelte: per esempio, sceglie
questo o quel corso di studi, questo o quel lavoro, sceglie di relazionarsi con
questa o quella persona, prende insomma questa o quella decisione, anche la più
insignificante. Certamente esiste il condizionamento dato dell'ambiente e dalle
circostanze particolari in cui si trova a vivere, ma in ultima istanza egli è
sempre libero di scegliere, anzi è «costretto a scegliere» e perciò è
«costretto a essere libero». In questa libertà, egli può operare due scelte
fondamentali: quella di vivere nel mondo quale esso è, ed è la scelta che
Sartre chiama dell'«immanenza», del vivere nell'«in sé», limitando la propria
libertà con la subordinazione alle regole e ai valori del mondo, e vi è la
scelta contraria del vivere nel «per sé», la scelta della «trascendenza», nella
quale si realizza la propria libertà operando per trasformare il mondo nel
quale si vive, avendo scelto di modificarne le dinamiche, le regole, i valori.
Partendo da
questi presupposti la Beauvoir nota come «ogni
soggetto si pone concretamente come trascendenza attraverso una serie di
finalità; esso non attua la propria libertà che in un perpetuo passaggio ad
altre libertà; la sola giustificazione dell'esistenza presente è la sua
espansione verso un avvenire indefinitamente aperto. Ogni volta che la
trascendenza ripiomba nell'immanenza v'è uno scadere dell'esistenza nell'in sé,
della libertà nella contingenza; tale caduta è una colpa morale se è
accompagnata dal consenso del soggetto, ma se gli è imposta, prende l'aspetto
di una privazione e di un'oppressione; in ambedue i casi è un male assoluto».
È proprio
questa la posizione che la donna assume nel mondo: «Ogni individuo che vuol
dare un significato alla propria esistenza, la sente come un bisogno infinito
di trascendersi. Ora, la situazione della donna si presenta in questa
singolarissima prospettiva: pur essendo, come ogni individuo umano, una libertà
autonoma, ella si scopre e si sceglie in un mondo in cui gli uomini le
impongono di assumere la parte dell'Altro [...] pretendono di irrigidirla in
una funzione di oggetto e di votarla all'immanenza, perché la sua trascendenza
deve essere perpetuamente trascesa da un'altra coscienza essenziale e sovrana».[38]

Simone de Beauvoir
Ciascun
essere umano, nella sua propria individualità, è necessariamente «altro»
(minuscolo) rispetto a ogni (altro) individuo, ma in questa ovvia
considerazione di alterità non vi è alcuna connotazione di valore, né
indicazione di una condizione di subordinazione: l'«Altro» (maiuscolo), per la Beauvoir è invece l'essere connotato come irriducibilmente
inferiore che, in quanto tale, va tenuto distinto e individuato con chiarezza
in modo da essere collocato in un piano inferiore e separato. In questo
contesto l'«Altro» è la donna, è l'appartenente a un sesso diverso da quello
che ha connotato e connota di sé il mondo, è perciò «il secondo sesso», essendo
naturalmente quello maschile il primo.
È difficile
comprendere come e quando sia nata questa sudditanza, che non può in nessun
modo essere paragonata alle oppressioni sociali, o razziali o religiose che
nella storia hanno generato e generano conflitti aperti e sanguinosi.
L'opposizione dei sessi, secondo la Beauvoir, deve
essersi originata da una scelta esistenziale in un contesto storico
determinato, a partire da un'unione originale: «la coppia è un'unità
fondamentale le cui metà sono connesse indissolubilmente l'una all'altra.
Nessuna frattura della società in sessi è possibile. Ecco ciò che
essenzialmente definisce la donna: essa è l'Altro nel seno di una totalità, i
cui due termini sono indispensabili l'uno all'altro».[39]
Ciò spiega perché «quando l'uomo
considera la donna come l'Altro, trova in lei una complicità profonda. Così la
donna non rivendica se stessa in quanto soggetto perché non ne ha i mezzi
concreti, perché esperimenta il necessario legame con l'uomo senza porne la
reciprocità, e perché spesso si compiace nella parte dell'Altro».[40] Questa sorta di consenso della
donna a essere Altro è stato espresso dalla Beauvoir
nella celebre definizione «Donna non si nasce, lo si diventa», ma la donna
potrà liberarsi dalla sua dipendenza in una società dove sia bandito ogni tipo
di sfruttamento. Allora avverrà la sua trasformazione da Altro in altro
per l'uomo; riconoscendosi reciprocamente soggetti liberi e uguali, uomo e
donna manterranno «i miracoli che genera la divisione degli esseri umani in due
categorie distinte: il desiderio, il possesso, l'amore, il sogno, l'avventura;
e le parole che ci commuovono - dare, conquistarsi, unirsi - conserveranno il
loro senso [...] e la coppia umana troverà la sua vera forma».[41]
Il dopoguerra vide molte donne, che
nei paesi belligeranti erano state impiegate al posto degli uomini inviati al
fronte, ritornare alle loro consuete mansioni casalinghe. Negli Stati Uniti, in particolare,
l'accelerazione al progresso tecnico impressa dalla stessa guerra permise alle
imprese già impegnate nello sforzo bellico di riconvertire la produzione in
beni di consumo ad alto contenuto tecnologico, resi accessibili a un largo
pubblico grazie alle agevolazioni creditizie.
Nasceva la cosiddetta società dei consumi, che presto
si sarebbe espansa all'Europa: le case degli americani si
riempirono di elettrodomestici – televisioni, forni elettrici,
frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, aspirapolvere, lucidatrici – che,
insieme con l'uso dell'automobile che permetteva di sbrigare più velocemente le
commissioni e con i grandi supermercati dove si poteva trovare qualunque cosa
rendendo più semplice e rapida la spesa, sembravano rendere lievi e perfino
divertenti i già faticosi e noiosi lavori domestici. Il sogno della famiglia
della middle class divenne la casa
unifamiliare con annesso giardino a prato, che si affaccia nel viale silenzioso
di un quartiere residenziale, lontano dalle pericolose periferie dei centri
urbani. Contemporaneamente, la pubblica opinione vantava alle ragazze le
soddisfazioni del matrimonio e della vita familiare, e la convenienza di
rinunciare agli studi e al lavoro: solo allevare figli e prendersi cura del
marito avrebbe realizzato le autentiche aspirazioni di una donna.
Nel 1957 Betty Friedan (1921-2006) organizzò dei sondaggi presso molte
donne di mezza età, laureate o d'istruzione superiore, che si erano dedicate
esclusivamente a una vita di casalinghe, intervistandole circa la loro
istruzione, le loro esperienze e le eventuali soddisfazioni ricavate dalla loro
vita attuale. Scrisse articoli su quello che chiamò "il problema senza
nome", che poi raccolse e rielaborò nel libro The Feminine
Mystique (La mistica della femminilità),[42] pubblicato nel 1963.

Betty Friedan
Il suo
libro-inchiesta ebbe grande successo e smentì l'immagine stereotipata fornita
dagli «esperti» di pubblicità, di sociologia e di psicologia nelle riviste
specializzate: esisteva in realtà un «problema senza nome condiviso da
innumerevoli donne americane», del quale i creatori della «mistica della
femminilità» - la donna tutta casa, figli e marito - non avevano mai parlato.
Il problema consisteva nel disagio della loro condizione, del quale non
riuscivano a trovare una causa, ma ne esprimevano i sintomi: «Talvolta c'era
chi diceva: "Ogni tanto mi sento vuota ... incompleta". Oppure:
"Mi pare di non esistere". Talvolta questa sensazione veniva
annullata con un tranquillante. Talvolta la donna pensava che tutto dipendeva
dal marito o dai figli, o che quel che le occorreva era un nuovo arredamento, o
un alloggio migliore o un amante o un altro bambino. A volte andava dal medico
accusando sintomi che a malapena riusciva a descrivere: "Un senso di
stanchezza ... mi arrabbio tanto con i bambini da spaventarmi ... mi vien da
piangere senza motivo"».[43]
Denunciato il
ruolo coatto di sposa e di madre della donna americana, la Friedan
ritiene che essa debba procurarsi un lavoro e cercare di coniugare gli impegni
professionali con quelli domestici. È la soluzione tradizionale già suggerita
dal femminismo liberale del secolo precedente. Nel 1966 la stessa Friedan,
insieme ad Aileen Hernandez e a Pauli Murray, fondò la NOW, National Organization for Women,[44] un'organizzazione che presentò
proposte legislative allo scopo di ottenere l'effettiva eguaglianza tra i due
sessi.

Uno dei
simboli del movimento delle donne in Germania dagli anni '70
Intanto negli
Stati Uniti si diffondeva la protesta contro la discriminazione razziale, contro la
politica neo-colonialista nei confronti dei paesi
del Terzo mondo e contro la partecipazione
alla guerra vietnamita: cresceva il numero dei
renitenti alla leva in un Paese ove esisteva ancora la coscrizione
obbligatoria. In prima fila si ponevano intellettuali e studenti della New Left: tra di loro, gruppi di giovani donne cominciarono
a pensare in modo nuovo il problema del ruolo delle donne in una società che
formalmente riconosceva l'eguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione
di sesso, ma di fatto sembrava essere ancora dominata dagli uomini.
Si tratta di
femministe provenienti dalle file della classe media, alle quali le analisi
della tradizione liberale e socialista non sembrano più sufficienti: se nelle
democrazie occidentali le donne hanno ormai ottenuto parità giuridica ed eguali
retribuzioni nell'ambiente di lavoro, ma se nella società e nella famiglia
comandano ancora gli uomini, vuol dire che i motivi del dominio maschile vanno
individuati alla radice, e cioè nella differenza sessuale.
Il nuovo
femminismo radicale, rappresentato ai suoi esordi dal gruppo delle Redstockings,[45] il 7 luglio 1969 lanciò il suo manifesto a New York: «Le donne sono una classe
oppressa. La nostra oppressione è totale e riguarda ogni aspetto della nostra
vita. Siamo sfruttate come oggetti sessuali e di riproduzione, come personale
domestico e come manodopera a basso costo. Siamo considerate esseri inferiori,
il cui unico scopo è quello di migliorare la vita degli uomini. La nostra
umanità è negata. Il nostro comportamento ci viene prescritto e imposto con la
minaccia della violenza fisica [...] Noi identifichiamo gli agenti della nostra
oppressione negli uomini. La supremazia maschile è la più antica, la più
basilare forma di dominio. Tutte le altre forme di sfruttamento e di
oppressione (razzismo, capitalismo, imperialismo ecc.) sono estensioni della
supremazia maschile: gli uomini dominano le donne, pochi uomini dominano il
resto. Tutte le strutture di potere nel corso della storia sono stati a
prevalenza maschile e maschilista. Gli uomini hanno controllato tutte le
istituzioni politiche, economiche e culturali e hanno sostenuto questo
controllo con la forza fisica. Hanno usato il loro potere per mantenere le
donne in una posizione di inferiorità. Tutti gli uomini ricevono benefici
economici, sessuali e psicologici dalla supremazia maschile. Tutti gli uomini
hanno oppresso le donne».[46]

Kate Millett
L'anno
successivo uscì il libro Sexual politics (La politica del sesso),[47] di Kate Millett (n.
1934), una delle fondatrici del gruppo
delle Redstockings, la quale elabora il tema
secondo il quale il sessismo - la politica basata sul dominio del sesso
maschile su quello femminile - è alla base del vigente sistema patriarcale.
Analizzando anche testi degli
scrittori contemporanei David Lawrence, Norman Mailer, Henry Miller e Jean Genet, la Millett rileva come i primi tre vedano nella donna «una
fastidiosa forza minoritaria da conculcare e mirano a un ordinamento sociale
nel quale la femmina sarebbe perfettamente dominata», mentre l'omosessuale Genet «ha invece integrato la donna in una visione di
drastica sollevazione sociale, dove la sua antica subordinazione può dar luogo
a una forza esplosiva. E, effettivamente, in Les
paravents, sono le donne a rappresentare la
rivoluzione».[48]
Per la Millett, che ha un'estrazione marxista, precedente al
dominio di classe è il dominio dell'uomo sulla donna che si esprime nella
politica sessista delle società patriarcali. La donna è considerata un oggetto
sessuale da usare per il proprio piacere, ma lo stesso atto sessuale, prima
ancora di essere un atto di piacere e di procreazione, è un atto politico con
il quale si manifesta e si riafferma la supremazia del maschio «in tutti i
momenti della storia e in tutte le forme istituzionali [...] e con tutti i mezzi
(dalle "lusinghe" del "mito" della donna alle
"minacce" di violenza sessuale)».[49]
Anche The Dialectic of Sex (La dialettica dei sessi) di Shulamith Firestone (n. 1945), pubblicato nel 1970, cerca le cause del predominio
maschile sulle donne e le trova nella condizione che la natura ha assegnato
alla donna di trovarsi per mesi in gravidanza, a dover partorire e allevare per
anni i propri figli. In molti anni della sua vita la donna si trova pertanto,
all'interno della famiglia, in una condizione di obbiettiva debolezza e
bisognosa dell'aiuto dell'uomo, che da questa situazione ha tratto i motivi per
imporre il suo dominio.
Come è necessaria una rivoluzione
socialista per eliminare le distinzioni di classe, così è necessaria una
rivoluzione femminista perché le donne si riapproprino del controllo del loro
corpo e della fertilità: «l'obiettivo finale della rivoluzione femminista deve
essere, a differenza di quella del primo movimento femminista, non solo
l'eliminazione del privilegio maschile, ma della stessa distinzione dei sessi:
le differenze genitali tra gli esseri umani non avranno più alcuna importanza
culturale».
Si potrebbe così tornare alla libera
espressione di una pansessualità - quella che Freud chiamava perversa polimorfa -
che sostituisca l'attuale unico binomio etero-omosessuale
e «la riproduzione della specie da parte di un sesso a beneficio di entrambi
sarebbe sostituita dalla riproduzione artificiale». Grazie alla socializzazione
dell'allevamento dei figli cesserebbe la dipendenza del bambino dalla madre e
dalla madre dal bambino, e si spezzerebbe la tirannia della famiglia biologica,
così come la cibernetica libererà uomini e donne dalle fatiche del lavoro.[50]
Anne Koedt (n. 1941), altra militante delle Redstockings come la Millett
e la Firestone, aveva già scritto nel 1968 per le Notes from the First Year di quest'ultima un articolo che ripubblicò
rielaborato nel 1970, The Myth
of the Vaginal Orgasm
(Il mito dell'orgasmo vaginale),[51] un testo molto «scandaloso»
all'epoca, nel quale attaccò il fondamento della teoria freudiana sulla
sessualità femminile, ossia l'idea che una giovane divenga realmente donna
sessualmente adulta quando abbandoni l'orgasmo clitorideo, ottenuto con la pratica della masturbazione, in favore dell'orgasmo vaginale, che sarebbe provocato dalla penetrazione maschile. Freud sosteneva che
la frigidità femminile - l'incapacità di
raggiungere l'orgasmo vaginale - era una forma di nevrosi, riconducibile a una fissazione alla fase puberale.
In realtà «la vagina non è un'area altamente
sensibile e non è congegnata per raggiungere l'orgasmo. È la clitoride il
centro della sensibilità sessuale e l'equivalente femminile del pene». E come
il pene è l'unica area sessualmente sensibile dell'uomo, nella donna «c'è una
sola area di acme sessuale, anche se ci sono molte aree di sollecitazione
sessuale: quell'area è la clitoride» che nel rapporto sessuale convenzionale
non viene sufficientemente stimolata e la donna sembra «frigida». Che le cose
stiano effettivamente in questo modo era del resto già stato dimostrato da
decenni da studi d'istologia e di sessuologia, passati inosservati, per la
loro stessa natura, all'opinione pubblica.[52]
Della
cosiddetta frigidità femminile è in realtà responsabile l'uomo, che ha l'errata
idea che la penetrazione vaginale - niente altro che una masturbazione maschile
ottenuta con lo sfregamento del pene nelle pareti vaginali - sia il canonico e
corretto rapporto sessuale in grado di appagare entrambi i partners.
Ne deriva altresì che attraverso il mito freudiano «le donne sono state
definite sessualmente nei termini che piacciono agli uomini [...] siamo state
nutrite col mito della donna liberata e del suo orgasmo vaginale - un orgasmo
che di fatto non esiste».[53]
Il mito
freudiano è del resto funzionale a una società organizzata in vista dello
sfruttamento degli interessi maschili e gli uomini «temono di diventare
sessualmente superflui se la clitoride fosse sostituita alla vagina come centro
del piacere femminile». A loro volta le donne potrebbero liberare la loro
sessualità: «lo stabilimento dell'orgasmo clitorideo come fatto minaccerebbe
l'istituzione eterosessuale. Esso indicherebbe infatti che il piacere sessuale
si può ottenere sia da un uomo che da un'altra donna, facendo così
dell'eterosessualità non un assoluto ma un'opzione».[54]

Simbolo del
lesbismo
Le
conclusioni del saggio della Koedt diedero una forte
spinta all'organizzazione di un movimento lesbico, dal momento che inizialmente
le lesbiche si erano sentite discriminate dal movimento femminista. Nel 1970 il gruppo delle Radicalesbians
poté pubblicare sulle Notes from the Third Year il suo manifesto, The Woman Identified
Woman.
«Che cosa è una lesbica? Una lesbica
è la rabbia di tutte le donne condensata al punto di esplosione» - è l'esordio
del manifesto. Innanzi tutto «il lesbismo, come l'omosessualità maschile, è una
categoria di comportamento possibile solo in una società sessista
caratterizzata da rigidi ruoli sessuali e dominata dalla supremazia maschile.
Tali ruoli sessuali disumanizzano le donne definendoci una sottocategoria
rispetto alla dominante casta degli uomini». Le lesbiche sono considerate una
sorta di uomini mancati, alienati dal proprio corpo e dalle proprie emozioni e
«l'omosessualità è il risultato di un particolare modo di creare ruoli o
modelli di comportamento sulla base del sesso, e in quanto tale è una categoria
inautentica, non in consonanza con la
"realtà". In una società in cui gli uomini non opprimessero le donne,
e l'espressione sessuale potesse seguire i sentimenti, le categorie di
omosessualità ed eterosessualità scomparirebbero».[55]
«Lesbica» è
anche un'etichetta che «l'uomo getta contro qualsiasi donna che osi essere suo
pari sfidando le sue prerogative, tra le quali è compresa quella di considerare
le donne un mezzo di scambio tra gli uomini». Ecco perché questa etichetta è
oggi affibbiata alle femministe come ieri era assegnata a quelle donne che
seppero costruirsi una vita indipendente dalla tutela dell'uomo.
«Lesbica» è
una delle categorie sessuali con le quali gli uomini hanno diviso l'umanità:
«mentre tutte le donne sono disumanizzate come oggetti sessuali, quando
accettano di essere oggetti degli uomini esse ottengono la compensazione di
essere identificate con la forza, l'ego e lo status dell'uomo. La
disumanizzazione si rivela dal fatto che quando una donna eterosessuale conosce
una lesbica, subito comincia a riguardarla come un suo potenziale oggetto
sessuale, attribuendo alla lesbica un ruolo maschile surrogato: questo
comportamento rivela il suo condizionamento eterosessuale a fare di sé stessa
un oggetto quando il sesso è potenzialmente coinvolto in una relazione». Si
nega così alla lesbica la sua piena umanità e si dimostra quanto forte sia il
condizionamento culturale maschile in seno alle stesse donne.[56]
Aver interiorizzato
le definizioni che la cultura maschile dà delle donne, le esclude dalla
possibilità di elaborare i termini della loro vita: «l'uomo ci attribuisce una
sola cosa: lo status che ci rende schiave legittimandoci agli occhi della
società in cui viviamo. Questo, nell'attuale gergo culturale, si chiama
"femminilità" o "essere una vera donna". Noi siamo
autentiche, legittimate, reali nella misura in cui siamo proprietà di un uomo
del quale portiamo il nome. Essere una donna che non appartiene a nessun uomo
significa essere invisibile, patetica, inautentica,
irreale. L'uomo conferma la sua immagine di noi - ciò che dobbiamo essere per
essere accettate da lui - ma non il nostro vero io; lui conferma la nostra femminilità,
come la chiama, in relazione a lui, ma noi non possiamo affermare la nostra
personalità, il nostro autentico noi stesse. Finché saremo subordinate alla
cultura maschile per questa definizione, per questa approvazione, noi non
potremo essere libere».[57]

Adrienne Rich (a destra) con Audre Lorde e Meridel Le Sueur nel 1980
La scrittrice
Adrienne Rich (n. 1929) nel 1976 aveva già dato un contributo alle
discussioni del movimento femminista con Of Woman born
(Nato di donna), in cui aveva difeso la funzione della maternità,
considerandola una risorsa e una ricchezza della donna, purché sottratta alla
logica patriarcale. Con Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence (Eterosessualità obbligata ed esistenza
lesbica), del 1980, la Rich
interviene per rivendicare la piena legittimità del femminismo lesbico
all'interno del movimento femminista, orientato in senso eterosessuale pur se
violentemente polemico verso la cultura patriarcale: «La ricerca teorica
femminista non può più limitarsi ad esprimere tolleranza per il "lesbismo"
in quanto "stile di vita alternativo" o fare riferimenti meramente
rituali alle lesbiche. È ormai tempo di elaborare una critica femminista
dell'orientamento eterosessuale imposto alle donne».[58]
La Rich contesta che la sessualità femminile sia eterosessuale
per una sorta di inclinazione di natura «mistico-biologica» - la necessità
della riproduzione della specie - una preferenza o una scelta che
spinge le donne verso gli uomini «nonostante i potenti impulsi e le
complementarità emotive che spingono le donne verso le donne». Per la Rich «l'eterosessualità, come la maternità, deve essere
considerata ed analizzata in quanto istituzione politica».[59]
L'eterosessualità
è stata e viene imposta alle donne con i più diversi mezzi: lo stupro, le percosse, l'incesto, l'educazione - la spinta
sessuale maschile equivarrebbe a un diritto - l'idealizzazione dell'amore
eterosessuale nell'arte, nella letteratura, nei media, nella pubblicità - l'ideologia dell'amore
eterosessuale inculcata alla donna fin da piccola attraverso le fiabe, la televisione, il cinema, la pubblicità, le canzonette e la
coreografia dei riti nuziali è un mezzo potente di educazione
all'eterosessualità - i matrimoni con spose bambine e quelli obbligati, la prostituzione, gli harem, le teorie psicoanalitiche sulla
frigidità e l'orgasmo vaginale, le immagini pornografiche di donne che provano
piacere dalla violenza sessuale e dall'umiliazione.[60]
Ma fra i
tanti sistemi di imposizione vi è naturalmente anche «l'occultamento della
possibilità di una scelta lesbica, un continente sommerso che affiora di tanto
in tanto per essere poi subito risommerso. Qualsiasi studio o elaborazione
teorica femminista che contribuisca a mantenere l'occultamento e la marginalità
lesbica opera contro la liberazione e il rafforzamento delle donne come
gruppo».[61]

La
scrittrice Audre Lorde
La scrittrice
introduce i concetti di esistenza lesbica e di continuum lesbico:
«esistenza lesbica sta ad indicare sia il riconoscimento della presenza
storica delle lesbiche che la nostra costante elaborazione del significato di
tale esistenza. Per continuum lesbico intendo una serie di esperienze -
sia nell'ambito della vita di ogni singola donna che attraverso la storia - in
cui si manifesta l'interiorizzazione di una soggettività femminile e non solo
il fatto che una donna abbia avuto o consciamente desiderato rapporti sessuali
con un'altra donna. Se allarghiamo il concetto fino a includervi molte altre
espressioni di intensità affettiva primaria fra donne, quali il condividere una
ricca vita interiore, l'alleanza contro la tirannia maschile, lo scambio
reciproco di appoggio pratico e politico [...] allora cominceremo a recuperare
brandelli di storia e di psicologia delle donne che ci erano finora esclusi
come conseguenza delle definizioni limitative e in gran parte cliniche di
"lesbismo"».[62]
La Rich si rifiuta di assimilare all'omosessualità maschile
l'esperienza lesbica, che è, come la maternità, un'esperienza profondamente
femminile con uno specifico erotismo, che non può essere ristretto a nessuna
singola parte del corpo, o al solo corpo, come un'energia non solo diffusa, ma
onnipresente come scrive Audre Lorde,[63] «quando si condivide la gioia,
sia fisica che emotiva o psichica» e quando le donne condividono insieme il
loro lavoro.[64]
La femminista
lesbica francese Monique Wittig (1935-2003) denuncia in The straight mind, del 1980, l'uso del linguaggio come arma
politica, per dare una «lettura scientifica della realtà sociale nella quale
gli esseri umani sono dati come invarianti, intoccati
dalla storia e immuni dai conflitti di classe, con una psiche identica per ciascuno di essi
perché geneticamente programmata». Un esempio è fornito dalla psicoanalisi, che pretende di interpretare
il linguaggio simbolico dell'inconscio secondo modelli che in realtà
essa stessa ha precostituito manipolando i discorsi dei malati. Nella
psicanalisi di Jacques Lacan,
così come nello strutturalismo antropologico di Lévi-Strauss,
l'inconscio e il pensiero primitivo appaiono invariabilmente eterosessuali, ma
si tratta di «un'operazione che è stata loro necessaria per eterosessualizzare
sistematicamente quella dimensione personale che è emersa tra gli individui
dominati nel campo storico, soprattutto tra le donne».
Le cosiddette scienze che presuppongono l'eterosessualità
come fondamento di ogni società pretendono di presentare i loro concetti in
modo neutro e apolitico, ma sono funzionali al mantenimento dell'oppressione,
sono l'ideologia del gruppo dominante. La caratteristica di questa ideologia è
di universalizzare tutti i concetti - come quelli di "donna", di
"uomo", di "sesso", di "differenza" - come se
fossero leggi generali vere per tutte le società, per tutte le epoche e per
tutti gli individui, perché fondate sulla "natura", e perciò
invarianti, quando in realtà sono solo espressioni di una cultura particolare
sviluppatasi storicamente.[65]
In One is not Born a Woman
(Donna non si nasce) del 1981 - titolo che fa riferimento alla nota
frase di Simone de Beauvoir - Monique
Wittig sostiene che gli uomini e le donne costituiscono due classi separate,
una divisione che ha unicamente origine politica: «non solo non esiste nessun
gruppo naturale "donne" (noi lesbiche ne siamo una prova vivente,
fisica), ma come individui noi rimettiamo in questione la "donna",
che per noi non è che un mito», un mito costruito sul principio dell'eterosessualità
e sulla riproduzione. Ammettere l'esistenza di una divisione
"naturale" tra donne e uomini significa naturalizzare la storia e i
fenomeni sociali, giustificando così l'oppressione come fatto necessario, e
rendendo impossibile ogni cambiamento.
Essendo "donna" e "uomo"
due categorie politiche, non sono di conseguenza eterne. Occorre perciò
sopprimere gli uomini in quanto classe attraverso una lotta di classe politica:
«quando la classe degli uomini sarà scomparsa, anche le donne in quanto classe
scompariranno a loro volta, perché non ci sono schiavi senza padroni». Una
nuova definizione della persona e del soggetto per tutta l'umanità può essere
trovata solo al di fuori delle categorie di sesso, nel rifiuto delle scienze
che le utilizzano come loro fondamenti.
Il lesbismo è per la Wittig «la sola
forma sociale nella quale possiamo vivere libere» come "lesbica" è il
solo concetto al di là delle categorie di sesso, perché il soggetto designato
non è una donna, né economicamente, né politicamente, né ideologicamente, perché
«ciò che costituisce una donna è la relazione sociale specifica con un uomo»,
una relazione di servitù dalla quale le lesbiche si sono emancipate. La
distruzione della classe delle donne passa attraverso «la distruzione
dell'eterosessualità come sistema sociale basato sull'oppressione e
l'appropriazione delle donne da parte degli uomini, che produce il corpo delle
dottrine della differenza tra i sessi per giustificare questa oppressione».[66]
Nel 1974 fu pubblicato il saggio di Gayle Rubin (n. 1949) The Traffic in Women. Notes on the
"Political Economy" of Sex (Lo scambio delle donne. Note sulla
"economia politica" del sesso). La Rubin
parte dalla classica analisi di Engels, che ritiene
però di dover integrare con le ricerche Freudiana in psicoanalisi e quelle
antropologiche di Lévi-Strauss.
Per quanto le conclusioni di questi ultimi siano contestabili, il materiale da
loro fornito è un utile strumento di comprensione della realtà sociale, con i
suoi meccanismi di oppressione delle donne e dell'omosessualità.
Freud e Lévi-Strauss, infatti, «forniscono gli strumenti
concettuali per individuare quella parte della vita sociale che è il locus
dell'oppressione della donna, delle minoranze sessuali e di certi aspetti della
personalità dell'individuo. Io chiamo questa parte della vita sociale
"sex/gender system" [...] Un "sex/gender system" è, a una
prima definizione, la tendenza dei dispositivi tramite i quali una società
trasforma l'istinto sessuale biologico in prodotto dell'attività umana e
attraverso cui i bisogni sessuali, così trasformati, sono soddisfatti».
Mentre gli
individui si distinguono biologicamente secondo il sesso, ossia secondo le due
categorie di maschi e femmine, il genere è «l'insieme dei processi di
adattamento, modalità di comportamento e di rapporti, con i quali ogni società
trasforma la differenza sessuale biologica in prodotti dell'attività umana». Si
tratta del risultato di un processo storico che ha per conseguenza
l'attribuzione, all'interno della società, di determinati ruoli in base al
sesso di appartenenza. Attraverso l'educazione impartita fin dall'infanzia ci
si aspetta che ogni individuo si identifichi con il ruolo assegnatogli – riconosca
cioè la sua identità sessuata nel ruolo – e onori le aspettative
relative assumendo i comportamenti corrispondenti.
Ne Les structures élémentaires de la parenté
(Le strutture elementari della parentela) Lévi-Strauss
aveva analizzato il matrimonio nelle società primitive. Egli ritiene che
«l'essenza dei sistemi di parentela consista nello scambio delle donne tra
uomini», costruendo così implicitamente una teoria dell'oppressione sessuale:
«Scambio delle donne è una formula rapida per esprimere che i rapporti sociali
di un sistema di parentela specificano che gli uomini hanno certi diritti sulle
loro parenti donne, e che le donne non hanno gli stessi diritti, né su se
stesse né sui loro parenti uomini. In questo senso, il concetto di scambio
delle donne rappresenta una percezione profonda di un sistema nel quale le
donne non hanno pieni diritti su se stesse».
La Rubin va oltre le analisi di Lévi-Strauss,
spiegando il senso dei sistemi di parentela. Questi si basano sul matrimonio e
trasformano i maschi in uomini e le femmine in donne, cioè in un genere.
Inoltre, «il tabù dell'incesto presuppone l'esistenza di un tabù,
precedente e meno esplicito, sull'omosessualità. Una proibizione gravante su
certe unioni eterosessuali suppone un tabù sulle unioni
non eterosessuali. Il genere non è solo l'identificazione con un sesso, è anche
l'obbligo di indirizzare il desiderio sessuale verso il sesso opposto. La
divisione sessuale del lavoro è compresa in entrambi gli aspetti del genere:
essa li crea uomo e donna e li crea eterosessuali. Il rifiuto della componente
omosessuale della sessualità umana e, come suo corollario,
l'oppressione degli omosessuali, è quindi un prodotto dello stesso sistema che,
con le sue regole e i suoi rapporti, opprimono le donne».
Dalla
psicoanalisi la Rubin accetta il concetto di complesso di Edipo: la sua esistenza e
i suoi effetti negativi sono dovuti proprio al sistema sex/gender, in
quanto i bambini si trovano, crescendo e venendo investiti del ruolo, a dover
negare l'amore per la madre, la figura primaria della loro infanzia. Se invece
sia l'uomo che la donna si prendessero cura paritariamente
dei loro figli, «il primo oggetto d'amore potrebbe essere bisessuale. Se
l'eterosessualità non fosse obbligatoria, questo primo amore non dovrebbe
essere represso [...] e l'intero dramma edipico si potrebbe ridurre a una
reliquia».
Il movimento femminista, che si pone il problema del
superamento delle contraddizioni di un sistema sociale che produce
l'oppressione sessista, deve pertanto mirare all'eliminazione del ruoli
sessuali imposti. Il sogno della Rubin è quello di
«una società androgina senza genere [...] nella quale l'anatomia di una persona
sia irrilevante per stabilire cosa si deve fare e con chi si deve fare
l'amore».[67]
La ricerca
delle origini dell'oppressione femminile nella storia umana portò Susan Brownmiller
(n. 1935) a teorizzare nel suo Against Our Will. Men, Women and Rape (Contro la nostra volontà. Uomini,
donne e violenza sessuale) del 1975, che sia stato lo stupro o anche soltanto la minaccia della
violenza sessuale il mezzo con il quale gli uomini primitivi ottennero quella
subordinazione delle donne che, pur in forma mutate, si è perpetuata nelle
società moderne.
Già il socialdemocratico
tedesco August Bebel (1840-1913), ne La donna e il socialismo
(1879), prima ancora di Engels
rintracciò nella necessità di avere maggiore quantità di forza-lavoro l'origine del ratto delle
donne e della schiavitù dei nemici fatti prigionieri: «Le donne diventarono
lavoratrici e oggetti di piacere per i conquistatori, i loro uomini diventarono
schiavi». Ma, anche se questa analisi è probabilmente vera in sé, secondo la Brownmiller lo stupro, quale mezzo di intimidazione e di
asservimento, ha cronologicamente preceduto il ratto e la schiavitù: «in
termini di anatomia umana, la possibilità di un coito forzato
incontrovertibilmente esiste. Questo solo fattore può essere bastato per
determinare un'ideologia maschile dello stupro. Quando gli uomini scoprirono
che potevano violentare, si misero a farlo».
Se le prime
violenze sessuali poterono essere episodiche, presto l'uomo comprese che esse
potevano rappresentare «la fondamentale arma offensiva dell'uomo contro la
donna, il principale agente del volere di lui e della paura di lei [...] il
definitivo banco di prova della sua forza superiore [...] Si tratta, né più né
meno, che di un consapevole processo d'intimidazione mediante il quale tutti
gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura».[68]
The Mermaid
and the Minotaur. Sexual Arrangements and Human Malaise (La sirenetta e il minotauro. Modalità sessuale e malessere umano) pubblicato nel 1976 dalla psicoanalista Dorothy Dinnerstein
(1923-1992) rappresenta nelle due figure mitologiche della sirenetta e del minotauro i
caratteri rispettivamente femminili e maschili generati dall'allevamento dei
figli nelle famiglie delle moderne società occidentali.
Nel rapporto,
prevalente se non unico, che i bambini stabiliscono con la propria madre a
motivo dell'assenza o dell'insufficiente presenza del padre, si stabiliscono
due distinte relazioni di genere: il bambino finirà per sottrarsi alla tutela
opprimente della madre assumendo da adulto la figura del minotauro,
l'essere che domina e possiede le donne, in modo da ribaltare il suo ruolo
infantile di essere dominato da una donna. La bambina, per sottrarsi
all'analoga tutela materna, assumerà invece la figura della sirenetta, che
seduce l'uomo in modo essere dominata da questi, che si sostituisce così alla
madre nel ruolo di dominante.
Come la Rubin, anche la Dinnerstein
ritiene che la presenza a pari titolo del padre a fianco della madre - quello
che ella chiama dual parenting
- possa condurre a una trasformazione dei ruoli di genere che si stabiliscono
all'interno della famiglia.
La
psicoanalista Nancy Chodorow
(n. 1944), autrice nel 1978 de The Reproduction of Mothering. Psychoanalysis and the Sociology
of Gender (La riproduzione della funzione materna. Psicoanalisi e
sociologia di genere) considera le differenze di genere formazioni di
compromesso del complesso edipico. Tutti i bambini, per i quali la madre
rappresenta il primo oggetto sessuale, formano il loro Io in reazione alla figura dominante della
madre. Il maschio forma il suo senso di indipendenza in modo più immediato
emulando il padre nel suo interesse possessivo verso la madre/moglie.
Per la
bambina le cose vanno diversamente, poiché nella successiva fase edipica tenta
di fare del padre l'oggetto del suo amore, ma viene ostacolata dal legame
intenso con la madre.
Tuttavia, da questo legame primario nasce e si mantiene la
vocazione della bambina alla maternità, così che la riproduzione della funzione
materna della donna costituisce la base per il perpetuarsi della sua
collocazione nella sfera domestica: «che le donne facciano le madri è un
aspetto fondamentale dell'organizzazione del sistema sesso/genere: sta alla
base della divisione del lavoro e accanto all'ideologia circa le capacità e la
natura della donna, genera anche una psicologia e un'ideologia della dominanza
maschile». Nella divisione del lavoro l'agire dell'uomo si colloca infatti nel
luogo allargato della società, mentre l'agire della donna si restringe
nell'ambito della famiglia, e i loro distinti ruoli si riproducono nel
succedersi delle generazioni.
Per superare
un'organizzazione sociale che produce funzioni di generi discriminatorie, è
allora necessario cominciare a «riorganizzare la cura della prole, dove l'accudimento primario sia condiviso alla pari dagli uomini e
dalle donne». Crescendo in dipendenza di entrambi i genitori, il maschio «non
finirebbe per legarsi alla negazione della dipendenza e alla svalutazione della
donna» diminuendo «il suo bisogno di difendere gelosamente la propria
mascolinità e il controllo delle sfere sociali e culturali che trattano e
definiscono la donna come un essere secondario e privo di potere».[69]
Il femminismo
americano si era costituito fin dall'inizio come movimento di sole donne
bianche che, pur denunciando anche le discriminazioni razziali esistenti negli
Stati Uniti, non aveva fatto distinzioni tra uomini e donne nere e non aveva
preso in considerazione la specifica oppressione esercitata dai neri contro le
donne di colore.
Un gruppo di
afro-americane diede vita a Boston, nell'aprile del 1977, al Combahee River Collective,
un circolo femminista che prese il nome della località dove, durante la guerra di secessione, un reggimento di
neri appartenente all'esercito nordista combatté vittoriosamente contro gli
schiavisti della Confederazione sudista. La posizione programmatica del
collettivo era fortemente radicale e d'ispirazione marxista: «crediamo che la
politica sessuale sotto il patriarcato sia pervasiva nella vita delle donne
nere quanto la politica di classe e razziale. È difficile separare la razza
dall'oppressione di classe e razziale perché esse agiscono simultaneamente nella
nostra vita».

Angela Davis
nel 1973, con Valentina Tereškova
Oltre a denunciare il razzismo e il maschilismo bianco,
esse dovevano fare i conti con il sessismo di matrice nera e, rispetto alle
femministe bianche, dovevano denunciare il ruolo marginale che il mondo del
lavoro assegnava alle donne afro-americane che, quando potevano evitare la
disoccupazione, si trovavano sottopagate e relegate a svolgere i lavori più
umili. Convinte che «la liberazione di tutti i popoli oppressi richiede la distruzione
del sistema politico-economico del capitalismo, dell'imperialismo e del
patriarcato», affermavano che la rivoluzione socialista doveva essere anche
«una rivoluzione femminista e anti-razzista» per garantire la loro effettiva
liberazione.
Tra le esponenti di rilievo del femminismo nero
statunitense vanno annoverate la scrittrice Michelle Wallace (n. 1952), autrice nel 1979 del libro Black Macho
and The Myth of The Superwoman, Angela Davis (n. 1944), comunista, insegnante universitaria, il
cui maggior contributo al femminismo è il libro Women, race and class del 1981, anno in cui viene pubblicato anche Ain't I a Woman? dell'attivista bell hooks,
pseudonimo (in voluti caratteri minuscoli) di Gloria Jean Watkins (n. 1952),
che esamina i temi dell'influsso storico del sessismo e del razzismo sulle
donne nere, della svalutazione della femminilità nera, dei ruoli dei media nel
propagandare il modello capitalistico e patriarcale, e della sottovalutazione,
all'interno dello stesso movimento femminista americano, delle questioni
razziali e classiste.
La maggiore esponente del femminismo
inglese è senz'altro Juliet Mitchell (n. 1940), socialista, psicoanalista e docente
di psicoanalisi e di Gender Studies nell'Università di Cambridge. Già nel 1966 aveva affrontato, con il saggio The
Longest Revolution,
pubblicato nella «New Left Review»
e rielaborato nel successivo Women's Estate,
il problema della condizione di subordinazione sociale delle donne,
individuandone le cause nella stessa struttura sociale capitalistica, nello
stretto legame tra sessualità e procreazione, e nel ruolo di allevamento dei
figli, assegnato esclusivamente a loro.
La via d'uscita, per le donne, è
nella rivoluzione socialista, nel diritto al lavoro a pari condizioni con gli
uomini, nella separazione tra sessualità e gravidanza, con l'utilizzo
generalizzato e gratuito dei mezzi contraccezionali,
nel porre fine ai pregiudizi sull'omosessualità, nella cura dei figli condivisa
dai genitori, e nella creazione di un maggior numero di asili nido e di centri
sociali.
In Psychoanalysis
and Feminism, del 1974, la Mitchell
offre una rivalutazione delle analisi freudiane sulla psicologia femminile.
Freud non è un «maschilista», come credono molte femministe, e in Totem e
tabù egli indicò che il patriarcato ha origini storiche e non «naturali», e
pertanto esso può essere combattuto e superato. La lotta politica va condotta
sia contro il sistema patriarcale che contro quello capitalistico, perché il
rovesciamento di quest'ultimo non porta di conseguenza la fine del primo, e a
combattere il patriarcato le donne si troveranno a lungo isolate: solo «quando
il movimento femminista avrà una sua teoria e una sua prassi rivoluzionaria,
anche gli uomini (pur con qualche difficoltà) potranno rinunciare ai loro
privilegi patriarcali e diventare femministi».[70]
Il 1º ottobre 1968 venne fondata a Parigi l'associazione femminista radicale Psy-et-po, ossia Psychanalise
et politique. In
Francia era allora molto vivo l'interesse per le controverse teorie di Jacques Lacan
che cercava di rinnovare la psicoanalisi freudiana attraverso i mezzi dello
strutturalismo linguistico di Ferdinand de Saussure: «l'inconscio si
struttura come un linguaggio» e il linguaggio comunica i valori e rappresenta
il mondo nel quale ci troviamo a nascere. La dimensione che organizza e impone
al bambino e alla bambina i valori dominanti è chiamato «ordine simbolico»
perché si esprime con i simboli delle parole, e succede all'«ordine
immaginario» nel quale i bambini si riconoscono per la prima volta
nell'immagine rimandata dallo specchio, individuandosi come soggetti distinti.
Dalla Psy-et-po e
dai seguaci di Lacan proviene Luce Irigaray
(n. 1930), che nello Speculum. De l'autre femme (Speculum. Dell'altro in quanto donna),
pubblicato nel 1974, rompe con la psicoanalisi freudiana
e con Lacan, perdendo il posto al dipartimento di
psicanalisi nell'Università di Parigi a Vincennes.

Sigmund Freud
Freud stesso
definisce la femminilità un «enigma»,[71] per risolvere il quale egli
parte dalla sessualità maschile. Dalla differenza dei due sessi, Freud preleva
uno dei due termini - quello maschile - che viene assunto come origine la cui
differenziazione porterà alla luce l'altro, che appare nelle forme di
opposizione essere/divenire, avere/non avere, fallico/non fallico,
pene/clitoride, logos/silenzio, desiderio della madre/desiderio d'essere madre:
«tutte modalità d'interpretazione della funzione di donna rigorosamente
postulate dal proseguimento d'una partita in cui la donna si trova sempre
iscritta senza aver mai incominciato a giocare».[72]
Con questi
presupposti Freud arriva a considerare la bambina, nella «fase fallica» dello
sviluppo sessuale, «un ometto», ma un ometto «dal pene più piccolo. Un ometto
svantaggiato. Un ometto la cui libido subirà una più forte repressione [...]
più narcisista [...] più pudico, perché si vergogna del confronto svantaggioso.
Più invidioso e geloso perché meno dotato [...] un ometto il cui unico
desiderio sarebbe quello d'essere o di restare un uomo».[73]
Gli esempi di questa visione
fallocentrica si possono moltiplicare: Freud limita il piacere masturbatorio della bambina alla sola clitoride, perché
egli ignora le zone erogene che non hanno un corrispettivo maschile,[74] oppure chiama maschile
la fase nella quale sia la bambina che il bambino amano la madre - «un modo per
eludere la singolarità della relazione tra la bambina e sua madre, così come
altrove [Freud] si fa cieco davanti l'originalità d'un desiderio tra donne»[75] - o ancora qualifica di
maschile o neutra la libido. Una libido femminile è per lui
«priva di qualsiasi giustificazione»,[76] perché diversamente
rappresenterebbe «un fuori che minaccia, agli occhi del soggetto maschile della
storia, le parole, i segni, il senso, la sintassi» della rappresentazione uomo-sessuale.[77]
Il fallocentrismo delle teorie
freudiane si conferma nella presunta «invidia del pene» provata dalla bambina.
In Freud la differenza sessuale si risolve in un più o un meno di un sesso, il
pene, e la mancanza e l'invidia relativa assolvono la funzione di polo negativo
in una dialettica fallocentrica e a rimedio contro l'angoscia maschile di non avere un pene:
«se lei ne ha invidia, allora lui ce l'ha. Se lei ha invidia di quello che lui
ha, deve trattarsi di cosa che vale. Forse il solo valore che meriti di essere
invidiato. Il campione su cui si misura ogni valore».[78]
Insomma Freud, e con lui
l'immaginario maschile costruito sull'ordine simbolico dominante, vede la donna
come immagine invertita dell'uomo in uno specchio: «affinché l'io sia dotato di
valore, occorre che uno specchio lo assicuri, lo ri-assicuri, della sua
validità. La donna rappresenta il puntello nel meccanismo della specularità,
lei che rinvia all'uomo la "sua" immagine [...] l'intervento di
un'immagine altra, d'uno specchio altro, costituisce sempre il
rischio d'una crisi mortale». Lo specchio altro è lo speculum, lo
specchio concavo che riflette le immagini delle cavità del corpo che uno
specchio piano non può rimandare, e che darebbe l'immagine di un'altra
donna, quella reale, nella quale la differenza non è una mancanza o un nulla.[79]
La psicanalista e semiologa bulgara,
naturalizzata francese, Julia Kristeva (n. 1941), senza essere propriamente una
femminista, ha dato un contributo importante al dibattito sulla differenza
sessuale con la sua teoria dell'ordine semiotico materno. L'ordine
semiotico è l'insieme dei segni con la quale la madre si mette in rapporto con
i figli fin dalla loro nascita - è dunque costituito dai gesti, dalle carezze,
dal contatto diretto del corpo - e precede e viene sostituito dall'ordine
simbolico paterno, teorizzato da Lacan e
costituito dal linguaggio, che è portatore della dominante ideologia maschile.
Hélène Cixous (n. 1937), scrittrice e fondatrice del Centro
di studi femminili dell'Università di Vincennes, ha
teorizzato la pratica di una «scrittura femminile», così detta perché rifiuta
la logica della «scrittura maschile» basata sull'opposizione di coppie
concettuali del tipo uomo/donna, padre/madre, attivo/passivo, sole/luna,
cultura/natura, giorno/notte, testa/cuore, forma/materia, ecc.
Naturalmente la scrittura maschile
non è altro che l'espressione del pensiero maschile, unico e centrale nella
storia delle filosofie e delle
letterature, e dunque il risultato del «logofallocentrismo».
Di fronte a questa situazione di fatto, si può solo improvvisare «una scrittura
di donne che si rivolgono ad altre donne, che esaltano quello che è stato
ignorato e disprezzato dal discorso maschile, che creano continuamente
strutture sintattiche e linguistiche nuove, femminili, non assorbibili nelle
codificazioni maschili».[80]

Catharine MacKinnon
A partire dai
primi anni Ottanta il movimento femminista, limitatamente alle sue forme
organizzate, subisce un nuovo periodo di riflusso, per quanto alcune sue
tematiche sembrano essersi ben radicate nella coscienza delle nuove generazioni
e inserite nella pratica sociale e nella legislazione, soprattutto, dei paesi
europei e del Nord America. Si diffonde il riconoscimento dell'interruzione
volontaria di gravidanza, si puniscono le molestie sessuali, si pone attenzione
all'uso di un linguaggio «politicamente corretto», e i movimenti omosessuali
ottengono finalmente visibilità.
Un tema su
cui le femministe, ma non solo, s'impegnano, è anche quello dello sfruttamento
crescente del corpo femminile in spettacoli e in immagini, e della
rappresentazione degradata della sessualità fornita da certe pubblicazioni. La
femminista radicale americana Andrea Dworkin (1946-2005), che nel 1981 aveva pubblicato il libro Pornography. Men Possessing Women, nel 1983 iniziò insieme con l'avvocato Catharine MacKinnon (n. 1946), una campagna per ottenere la
condanna legale delle pubblicazioni pornografiche in quanto rappresenterebbero
una violazione dei diritti civili delle donne. Le città di Minneapolis e di Indianapolis emisero in tal senso due
ordinanze che furono tuttavia dichiarate anticostituzionali. In compenso, la
sua iniziativa fu parzialmente accolta nel 1992 dalla Corte Suprema del Canada, che valutò come certa pornografia rappresenti effettivamente una
violazione della garanzia dell'eguaglianza dei sessi. La campagna
anti-pornografia della Dworkin fu appoggiata da
movimenti conservatori estranei al femminismo e fu criticata da non poche
femministe, oltre che dalla scrittrice Erica Jong, che
vi videro il rischio connesso all'esercizio di una generalizzata censura contro
la libera espressione del pensiero.
Crescente è
l'approfondimento, in ambito accademico, dei temi che erano emersi durante la
«seconda ondata» femminista. Carol Gilligan
(n. 1936), insegnante di psicologia nell'Università di Harvard, nel libro del 1982 In a Different
Voice. Psychological Theory
and Women's Development,
(tradotto in italiano Con voce di donna. Etica e formazione della
personalità), critica la teoria di Freud, ripresa da Lawrence Kohlberg,
secondo la quale l'etica delle donne sarebbe inferiore a
quella degli uomini. Analizzando le risposte a un test ideato da Kohlberg per valutare lo sviluppo morale di bambini dei due
sessi,[81] la Gilligan,
mettendo da parte improbabili questioni di superiorità o meno, rilevava
piuttosto la differenza fra il soggetto morale maschile e quello
femminile, il primo orientato all'individualismo astratto, il secondo alla
relazione concreta.
Il dilemma
proposto - un conflitto tra diritto alla vita e diritto alla proprietà privata
- era risolto dal bambino per deduzione logica, astraendo dalla concreta
situazione il problema morale: nella logica dell'equità egli poneva la
soluzione della contesa. «A questo ordinamento gerarchico, con il suo mondo di
rappresentazioni fatto di vincitori e vinti», si sostituisce, nell'impostazione
che la bambina dà al dilemma, «un intreccio, una fitta trama di rapporti tenuta
in vita da un processo di comunicazione», che ricomponga la lacerazione del
rapporto all'origine del conflitto.[82]

Donna Haraway
Donna Haraway (n. 1944), femminista socialista e insegnante
nell'Università di Santa Cruz, è autrice di A Cyborg
Manifesto. Science, Technology, and
Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, pubblicato nel
1985 nella «Socialist Review». Il Manifesto
della Haraway è la costruzione di un «mito politico»,
l'ipotesi di una società futura nella quale i valori del femminismo, del
socialismo e del materialismo possano riconoscersi. Al centro dell'utopia è
l'immagine del cyborg, «un organismo cibernetico, un ibrido di macchina
e organismo, una creatura che appartiene tanto alla realtà sociale che alla finzione».
Di fronte a questa nuova realtà, che potrà essere resa possibile dai crescenti
progressi della tecnologia informatica, i concetti tradizionali di classe,
razza, sesso, genere, corpo, identità, sono destinati a tramontare.
Il cyborg è una creatura che vive in
un mondo post-genere e non ha niente a che vedere con la bisessualità, la
simbiosi pre-edipica e l'alienazione del lavoro:
natura e cultura sono rimodellate, le distinzioni tra naturale e artificiale,
corpo e spirito, autosviluppo e creazione e altre
ancora che permettevano di distinguere gli organismi dalle macchine, sono
divenute molto vaghe. Il futuro mondo dei cyborg potrebbe essere costituito da
realtà corporee e sociali nelle quali nessuno avrebbe timore di discendere da
un essere animato e da una macchina, né di avere idee sempre frammentate, né
opinioni sempre contraddittorie.
Nella realtà odierna - afferma la Haraway - chiamarsi femminista e voler affermare il proprio
femminismo è divenuto difficile, perché nominarsi significa anche escludere e
le identità sembrano essere contraddittorie e parziali. Lo stesso «essere
donna» - oltre a costituire una categoria molto complessa, costruita in base a
discorsi scientifici sul sesso e su pratiche sociali discutibili - non è
sufficiente a creare un legame con le altre donne, come dimostrano le divisioni
tra le femministe stesse. Di fronte alla crisi dell'identità politica della
sinistra e del movimento femminista, un passo in avanti può essere costituito
dalla rinuncia a ricercare una unione basata sull'identità in favore di una
coalizione basata sull'affinità.[83]
L'italiana Teresa de Lauretis
(n. 1938), da tempo insegnante in diverse
Università degli Stati Uniti, in saggi sull'arte teatrale e cinematografica - Alice
no. Femminismo, semiotica, cinema (1984), Tecnologie del genere. Saggi su
teoria, film e narrativa (1987) - ha affrontato il problema del
ruolo assegnato agli attori, mostrando come il suo continuo cambiamento
introduca il concetto di parodia: non esistono identità fissate
dalla natura e ogni identità assunta è ogni volta una demolizione e una parodia
della precedente.
Nella
discussione, in ambito femminista, sulla differenza sessuale, il concetto di genere è stato sottoposto a un
approfondimento tale che dal suo primitivo significato di semplice distinzione
di sesso - il genere maschile e femminile - si è arricchito di
una polivalenza di rappresentazioni derivate dalla sessualità, dalla razza,
dalla posizione sociale, dalla cultura, dalla psicologia. Un primo risultato di
analisi femminista fu concepire il genere quale «marchio della donna, il segno
della sua differenza: una differenza sessuale che sottendeva un insieme di
tratti caratteriali derivanti dal sesso anatomico e dal destino biologico, e
comportava la subordinazione all'uomo».[84]
Le tecnologie
del genere sono, per la
de Lauretis, forme culturali -
quali il linguaggio, la filosofia,
la religione, la letteratura, le arti visive e i media - che alimentano e
costruiscono il genere insieme con le forme istituzionali del diritto, della
scuola, della famiglia. Il genere, pertanto, non è una semplice derivazione del
sesso biologico, ma è una rappresentazione discorsiva e ha una natura
artificiale. Ma il genere appartiene alla realtà concreta del singolo individuo
e diviene autorappresentazione e componente
dell'identità individuale: «il soggetto si ingenera, si produce in
quanto soggetto nell'assumere, nel fare proprie o nell'identificarsi con gli
effetti di senso e le posizioni specificate dal sistema sessuale di una data
società», tanto più quanto maggiormente egli è soggetto alle tecnologie del
genere.[85]
Per Teresa de Lauretis,
il genere, pur tenuto distinto dal sesso e dalla sessualità, è necessariamente
interconnesso con la
sessualità. Ma nell'ultimo scorcio del Novecento si affermano
nuovi studi nei quali non solo il genere, ma anche sesso e sessualità sono
intesi essere costruzioni discorsive e simboliche: diversamente dalla persona transessuale, che si identifica nel
"sesso" opposto a quello assegnatogli alla nascita, il transgender
è il soggetto che si identifica, che costruisce la propria identità al di là
del proprio corpo e del proprio sesso, oltre la sessualità e il genere. Il transgender «non si riferisce a nulla se non alla
propria natura di figura del discorso».[86]

Judith Butler
ad Amburgo nel 2007
Judith Butler (n. 1956), insegnante nell'Università di Berkeley,
nel suo Gender Trouble (Il problema del
genere, 1990) sostiene che non si possa parlare
della «donna» in termini universali: si tratta infatti di una categoria
complessa determinata dall'appartenenza alla classe, all’etnia, alla
sessualità; lo stesso patriarcato non è una categoria universale, perché si è
strutturato storicamente in forme e in luoghi diversi, esercitando diversamente
la sua oppressione sulle donne.
La psicoanalisi e lo strutturalismo
antropologico hanno teorizzato nel tabù dell'incesto e nel complesso di Edipo la trasformazione del
sesso in genere; per Claude Lévi-Strauss essi stanno
alla base dello scambio delle donne e dell'istituzione matrimoniale; per la
psicoanalista inglese Joan Riviere la femminilità è una maschera
che nasconde l'identificazione maschile e perciò anche il desiderio che una
donna potrebbe avere per un'altra donna; per Freud, nel lutto e nella
malinconia l'io si appropria dell'oggetto perduto rivestendosi dei suoi
attributi.
Partendo da queste tre teorie, la Butler afferma che l'incesto è «una fantasia culturale» e
la presenza del tabù genera il suo desiderio, mentre l'imitazione e la maschera
sono l'essenza del genere e l'identificazione con un genere è una forma di
malinconia nella quale il sesso dell'oggetto proibito viene interiorizzato in
quanto proibito. Per assicurare la stabilità dell'eterosessualità, occorre che
la nozione dell'omosessualità esista ma sia proibita. Il tabù dell'incesto è
dunque una legge che genera, regolarizza e approva l'eterosessualità, mentre
rigetta come sovversiva l'omosessualità, ma né l'una né l'altra sono prodotti
naturali, bensì culturali, sono infatti il prodotto di una legge.
Butler vorrebbe
costruire un femminismo politico in cui il genere non sia pensato come
rappresentativo di una categoria naturale o che vi sia assente. Anche la
dualità soggetto-oggetto, un concetto base nella pratica femminista che cerca
di riconsegnare alle donne lo statuto di soggetto e non di oggetto, è una
divisione artificiale. La nozione di soggetto è infatti formata mediante la
ripetizione e l'«esercizio della significazione», e da Teresa de Lauretis la Butler riprende
l'idea che la parodia e il travestimento siano il presupposto della costruzione
dell'identità di genere. Una politica positiva del femminismo deve perciò
emergere ridisegnando i giochi dell'identità e mostrando come ogni tentativo di
«essenzializzare» il genere sia destinato alla sconfitta.
La Butler
apriva così la strada alla queer theory, che
ripensa l'identità fuori dal quadro normativo di una società che guarda alla sessuazione come costitutiva di un'economia binaria degli
esseri umani, basata sull'idea della complementarietà nella differenza e
realizzata nella coppia eterosessuale. Non esistendo identità naturali, non
esistono nemmeno identità deviate e ogni soggetto è libero di assumere
qualunque identità, rimanendo ciascuna fluida e provvisoria. La «devianza» del
soggetto queer sta piuttosto nel suo porsi
polemicamente contro la «normalità» istituzionalizzata dalla tradizione
maschilista.
Il moderno
femminismo italiano nasce con la contestazione studentesca: a Trento si costituisce il circolo Lotta
femminista e un collettivo di cinque persone pubblica nel 1972 un libro, La coscienza di
sfruttata, che analizza la «questione femminile» da un punto di vista
marxista: nella società capitalistica la donna è sfruttata due volte, sia come
lavoratrice sia nel suo rapporto con l'uomo.
Nel 1969 si costituiscono il Fronte
italiano di liberazione femminile (FILF) e il Movimento per la
liberazione della donna (MLD), espressione del Partito radicale, che avanza richieste
concrete: istituzione del divorzio, informazione sui metodi
anticoncezionali, legalizzazione dell'aborto, creazione di asili nido.

Carla Lonzi
Di questi
collettivi fanno parte anche uomini. Il gruppo Rivolta Femminile, nato
nel 1970 a Milano e a Roma, vuole invece essere esclusivamente
femminile e accoglie tra le sue fila, tra le altre, Elvira Banotti,
che nel 1971 scrive sul problema dell'aborto Sfida
femminile, la nota pittrice Carla Accardi,
che scrive Superiore e inferiore, e Carla Lonzi (1931-1982), che redige con Accardi
e Banotti il Manifesto di Rivolta femminile e
alla quale si devono i primi, più importanti testi femministi scritti in
Italia, Sputiamo su Hegel, del 1970, e La donna clitoridea e la donna
vaginale, del 1971.
Hegel, nella Fenomenologia dello spirito,
teorizzava l'inferiorità della donna, giustificata dalle superiori esigenze
della realizzazione dello Spirito. Nella famiglia, fratello e sorella sono
differenti ma eguali, e però dalla famiglia il fratello esce per realizzarsi
come «individualità che si volge verso altro e passa nella coscienza
dell'universalità». Il destino della sorella è invece di divenire moglie e
madre, restando dunque nell'ambito della famiglia, vincolata al particolare ed
esclusa dall'universalità della comunità sociale. Non a caso le donne,
sosteneva ancora Hegel nelle Lezioni di filosofia del diritto, «non sono fatte per le
attività che richiedono una capacità universale, come le scienze più avanzate,
la filosofia e certe forme di
produzione artistica», né sanno agire «secondo esigenze di universalità, ma
secondo inclinazioni e opinioni arbitrarie».

Manifestazione
femminista
Si capisce
allora come Carla Lonzi invitasse nel Manifesto
a «sputare» sul filosofo tedesco, uno di coloro che avevano «mantenuto il
principio della donna come essere aggiuntivo per la riproduzione della umanità,
legame con la divinità o soglia del mondo animale; sfera privata e pietas»,
giustificando «nella metafisica ciò che era ingiusto e atroce nella vita della
donna».
Oggi la donna
è definita giuridicamente eguale all'uomo, ma si tratta, secondo la Lonzi, di un tentativo ideologico per asservirla a più alti
livelli, perché «la donna è l'altro rispetto all'uomo e l'uomo è l'altro
rispetto alla donna» e liberarsi non vuole dire accettare la stessa vita
dell'uomo, che «è invivibile», ma esprimere il suo senso dell'esistenza: «il
mondo dell'eguaglianza è il mondo della sopraffazione legalizzata,
dell'unidimensionale; il mondo della differenza è il mondo dove [...] la
sopraffazione cede al rispetto della varietà e della molteplicità della vita.
L'uguaglianza tra i sessi è la veste in cui si maschera oggi l'inferiorità
della donna».[87]
Anche nel
rapporto più diretto e intimo con la donna, quello sessuale, l'uomo ha imposto
alla donna il proprio piacere: «il piacere vaginale non è per la donna il
piacere più profondo e completo, ma è il piacere ufficiale della cultura
sessuale patriarcale».[88] Come Anne Koedt,
Carla Lonzi definisce «mito» l'orgasmo vaginale cui
contrappone l'autentico piacere clitorideo e rileva come esistano due vere e
proprie condizioni femminili, la «donna clitoridea» e la «donna vaginale».
Quest'ultima ha accettato la sessualità che l'uomo le ha imposto, ma occorre
liberarsi anche da questa primitiva oppressione patriarcale: «la donna
clitoridea non ha da offrire all'uomo niente di essenziale, e non si aspetta
niente di essenziale da lui. Non soffre della dualità, e non vuole diventare
uno».[89]

La polizia
carica un corteo femminista
Le femministe
manifestano a Roma l'8 marzo del 1972 in occasione della Giornata Internazionale della Donna e
vengono caricate dalla polizia: Alma Sabatini -
colei che nel 1987 pubblicherà le Raccomandazioni per
un uso non sessista della lingua italiana – «finisce all'ospedale. Sembrò
di essere tornati indietro di cento anni, quando le suffragette inglesi
venivano percosse dai poliziotti perché chiedevano il voto».[90]
Nel 1974 gli italiani respinsero il referendum
abrogativo della legge sul divorzio promosso da Gabrio Lombardi, professore della Pontificia
Università Gregoriana, e appoggiato dalla Democrazia Cristiana e dal Movimento
Sociale. Le femministe iniziarono a mobilitarsi per il riconoscimento del
diritto all'aborto, che venne approvato dal Parlamento il 6 giugno 1978 e confermato nel 1981 respingendo il referendum abrogativo.
Negli anni Settanta e Ottanta si
costituiscono altri gruppi femministi in diverse città, nascono iniziative
editoriali - «L'Edizione delle donne» e «La Tartaruga» a Milano - e si
pubblicano riviste esclusivamente dedicate alle tematiche femministe, come la «DWF» a Roma. Nel gennaio del
1983 esce nella rivista Sottosopra,
espressione del gruppo milanese della Libreria delle Donne, l'articolo Più
donne che uomini che, rielaborato e ampliato, produce nel 1987 il libro Non credere di avere dei
diritti.
Il movimento femminile in questi anni
ha indubbiamente ottenuto dei successi, sia nel campo sociale, sia in quello
personale, attraverso «la pratica politica dei rapporti tra donne», ma manca
ancora «il modo di tradurre in realtà sociale l'esperienza, il sapere e il
valore di essere donne». Nei rapporti sociali le donne si trovano in
difficoltà, «perché l'essere donna, con la sua esperienza e i suoi desideri,
non ha luogo in questa società, modellata dal desiderio maschile e dall'essere
corpo di uomo». Una donna si può affermare nella società a condizione di
modellarsi sull'uomo, a costo di una mutilazione di sé, dell'isolamento dalle proprie
simili, in definitiva, a costo del «disprezzo per il proprio sesso. Questo
rinnegamento della parte perdente, dentro e fuori di sé, fa sì che tra le poche
donne affermate socialmente molte siano in sostanza delle conservatrici o delle
reazionarie».[91]
Per superare
questa condizione di scacco e di inadeguatezza che la donna deve subire,
occorre «sessualizzare i rapporti sociali», che vuol dire «toglierli dalla loro
apparente neutralità e mostrare che nei modi socialmente correnti di
rapportarsi ai propri simili una donna non si trovava integralmente né con il
proprio piacere né con le proprie capacità».[92]
Un programma che punti alla parità
dei diritti tra i due sessi rappresenta una politica subordinata e della
subordinazione, e «non tocca la sostanza del problema, e cioè che in questa
società così com'è le donne non trovano né forti incentivi ad inserirsi né vera
possibilità di affermarsi al meglio di sé. Una donna ci sta, ammesso che voglia
starci, a disagio».[92] Le politiche delle
rivendicazioni sono forme politiche maschili, che portano all'omologazione
della donna nell'universalità del modello maschile e negano la significazione
della differenza sessuale.[93]
Dal disagio
dell'esistenza sociale la donna può uscire contrastando la cancellazione delle
proprie «emozioni, desideri, motivazioni, comportamenti, criteri di giudizio,
che non siano quelli rispondenti alla mascolinità, quelli cioè che ancora
prevalgono nella società governandola fin nelle sue più libere espressioni»,
dunque «sessualizzando i rapporti sociali», mettendo cioè in rilievo la
differenza sessuale e dandole voce e visibilità. Le donne non sono tutte
eguali, esistono disparità che occorre valorizzare affidando ciascuna «a una
propria simile - alla sua voglia di vincere, alla sua estraneità - per il
proprio interesse, e stabilire così un legame materiale che mette in comunicazione
cose che erano tacitate o distorte nel confronto individuale con la società
maschile».[92] Questo rapporto sociale di
affidamento tra donne è contenuto e strumento della più generale politica di
liberazione femminile.[94]
Luisa Muraro (n.
1940), esponente di spicco della Libreria
delle Donne e membro della comunità di filosofe che si raccolgono a Verona
sotto il nome di Diotima, ha pubblicato nel 1991 L'ordine simbolico della madre.
Contro il dominante ordine simbolico paterno occorre costruire un diverso
complesso culturale, concettuale e linguistico, l'ordine simbolico materno.
Ogni costruzione implica un inizio: Platone situa l'inizio del sapere nel mito
dell'uscita della caverna, Cartesio nella certezza di essere
garantita dal pensiero, ma il primo sapere che ogni essere umano ha realmente
sperimentato fin dai primi momenti della vita è «il saper amare la madre», e
saper amare la madre «fa ordine simbolico».[95]
La nostra primitiva
relazione con la madre, instaurata nell'immediatezza della venuta al mondo e
fatta di contatti, di gesti, di parole, di reciproca comunicazione nella quale
non si distingue il corpo dalla mente e la mente dalla parola, è il luogo
dell'immanenza, della presenza intera dell'essere. Saper amare la madre,
l'esperienza di relazione con la madre, dà così il senso dell'essere, e il
senso autentico dell'essere si manifesta nella coincidenza di avere senso ed
essere vero.[96] Saper amare la madre è dunque
il principio della conoscenza, ma la rimozione culturale del nostro rapporto
con la madre che si verifica con l'avvento della legge del patriarcato, la
quale si sovrappone all'opera positiva della madre, ha l'effetto di scindere
«la logica dall'essere ed è causa del nostro perdere e riperdere il senso
dell'essere».[97]
Si sa che a volte i figli sono allevati da donne che
non sono le loro madri biologiche, ma la loro relazione mantiene le medesime
caratteristiche che intercorrono nella relazione tra la madre naturale e la sua
creatura: dunque l'elemento naturale non è rilevante nella relazione. Muraro deduce da questo fatto «la predisposizione
simbolica» della madre a farsi sostituire senza danno «nell'opera di creazione
del mondo che ella compie insieme alla sua creatura», e l'esistenza di una
struttura, quella del «continuum materno», che attraverso la genealogia delle
madri riporta ai primordi della vita. In questo continuum materno la
creatura di sesso femminile si situa al centro, mentre «quella di sesso
maschile ne sta fuori»: la differenza sessuale è dunque presente fin dalle
origini nella relazione con la madre.[98]
È da rilevare che Muraro
rifiuta l'opposizione sesso/genere, equivalente in sostanza a un'opposizione
natura/cultura, presente in parte nel pensiero femminista nord-americano, che
ella ritiene sia di fatto «tributaria del progetto maschile di rifare e
soppiantare l'opera della madre». Ridurre la differenza sessuale
all'opposizione tra genere e sesso «veicola l'idea che la confezione del corpo
ad opera della madre sia separabile dai suoi significati culturali. Cioè, che
la madre non pensi. O che il suo pensare sia un aspetto scarsamente rilevante
della sua opera».[99]