Santa Giovanna d'Arco |
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Miniatura conservata presso il Centre
Historique des Archives Nationales di Parigi. |
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La Pulzella d'Orléans |
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Armatura, spesso a
cavallo, vessillo. |
Patrono di |
Francia,
telegrafia e radio |
Giovanna d'Arco, in francese Jeanne d'Arc, o Jehanne Darc nella versione più arcaica (Domrémy-la-Pucelle
, 6 gennaio 1412 – Rouen, 30 maggio 1431), eroina nazionale francese, oggi conosciuta come la Pulzella d'Orléans. Ebbe il merito di riunificare il proprio Paese contribuendo a risollevarne le sorti durante la guerra dei Cent'anni, guidando vittoriosamente le armate francesi contro quelle inglesi. Catturata dai Borgognoni davanti Compiègne, Giovanna fu venduta agli inglesi che la sottoposero ad un processo per eresia, al termine del quale, il 30 maggio 1431, fu condannata al rogo ed arsa viva. Nel 1456 il Pontefice Callisto III, al termine di una seconda inchiesta, dichiarò la nullità di tale processo. Beatificata nel 1909 e canonizzata nel 1920 da Benedetto XV, Giovanna venne dichiarata patrona di Francia.
Indice o
2.4 Consacrazione del Re a Reims
o
2.5 Eredità ideale di Giovanna
d'Arco o
3.3 Interrogatori a porte chiuse
·
4 Riabilitazione e canonizzazione
·
6 Cinema ·
7 Musica ·
8 Note |
Dipinto di J.B. Lepage
Nata a Domrémy[1] da Jacques Darc[2] ed Isabelle Romée[3], in una famiglia di contadini della Lorena, ma appartenente alla parrocchia di Greux, soggetta alla sovranità francese, Giovanna era una ragazzina molto devota e caritatevole; nonostante la giovane età visitava e confortava i malati e non era insolito che offrisse il proprio giaciglio ai senzatetto per dormire lei stessa per terra, sotto la copertura del camino[4]. All'età di tredici anni iniziò a udire voci celestiali spesso accompagnate da un bagliore e da visioni dell'Arcangelo Michele, di Santa Caterina e di Santa Margherita[5], come sosterrà in seguito. La prima volta che queste Voci le si palesarono, secondo il suo stesso racconto, reso durante il processo per eresia subíto a Rouen nel 1431, Giovanna si trovava nel giardino della casa paterna; era il mezzodì di un giorno d'estate[6]: sebbene sorpresa ed impaurita da quell'esperienza, Giovanna decise di consacrarsi interamente a Dio facendo voto di castità[7] «per tutto il tempo che a Dio fosse piaciuto»[8][9].
Nell'estate del 1428 la sua famiglia fuggì dalle devastazioni provocate dalle truppe di Giovanni di Lussemburgo ed Antonio di Vergy, capitano borgognone, nella valle della Mosa. Era da poco iniziato l'anno 1429 quando gli inglesi erano ormai prossimi ad occupare completamente Orléans, cinta d'assedio sin dall'ottobre del 1428[10]: la città, sul lato settentrionale della Loira, aveva, per la posizione geografica ed il ruolo economico, un valore strategico quale via d'accesso a tutte le regioni meridionali; per Giovanna, che sarebbe diventata una figura emblematica della storia di Francia, fu quello il momento - sollecitata dalle Voci che diceva di sentire - per correre in aiuto di Carlo, Delfino di Francia e futuro re, estromesso dalla successione al trono a beneficio della dinastia inglese nella guerra che l'opponeva agli inglesi ed ai loro alleati Borgognoni.[11]
Come Giovanna stessa dichiarerà sotto interrogatorio[12], in un primo tempo mantenne il più stretto riserbo su queste apparizioni sovrannaturali, che all'inizio le parlavano della sua vita privata e che solo successivamente l'avrebbero spinta a lasciare la propria casa per guidare l'esercito francese. Tuttavia, i suoi genitori dovettero intuire qualcosa del cambiamento che stava avvenendo nella ragazza, forse anche allertati da qualche confidenza che Giovanna stessa si era lasciata sfuggire, come avrebbe ricordato, molti anni dopo, un suo amico di Domrémy[13], ed avevano deciso di darla in sposa ad un giovane di Toul. Giovanna rifiutò di accettare la proposta di matrimonio ed il suo fidanzato la citò in giudizio dinanzi al tribunale episcopale; ascoltate entrambe le parti, il tribunale diede ragione a Giovanna, dal momento che il fidanzamento era avvenuto senza il suo assenso[14][15]. Vinta anche la resistenza dei genitori, la ragazza ebbe di nuovo le mani libere e poté dedicarsi alla sua missione. La prima tappa del suo viaggio la portò sino a Vaucouleurs dove, con l'appoggio dello zio Durand Laxart, riuscì ad incontrare il capitano della piazzaforte, Robert de Baudricourt. Questi, al primo incontro, avvenuto il 13 maggio 1428[16], la schernì rimandandola a casa come una povera folle. Per nulla demoralizzata da quell'insuccesso, Giovanna si recherà altre due volte presso il capitano di Vaucouleurs e questi, forse spinto dal consenso che Giovanna sapeva raccogliere tanto tra il popolo quanto tra i suoi uomini, mutò parere sul suo conto, sino a convincersi (non prima di averla sottoposta ad una sorta di esorcismo da parte di un curato del luogo, Jean Fournier) della sua buona fede e ad affidarle una scorta che l'accompagnasse al cospetto del sovrano, come la ragazza domandava.
Il viaggio di Giovanna da Vaucouleurs a Chinon per incontrarsi col gentile Delfino, per usare le sue stesse parole, suscitò di per sé non poco interesse. Districandosi tra i confini sempre incerti e sfumati tra villaggi francesi ed anglo-borgognoni, recando con sé la promessa di un aiuto sovrannaturale che sarebbe stato in grado di rovesciare le sorti della guerra, ormai apparentemente segnate, l'esiguo drappello rappresentava l'ultima speranza per il partito che ancora sosteneva il "re di Bourges", come veniva sprezzantemente chiamato Carlo VII dai suoi detrattori. Il Bastardo d'Orléans inviò due suoi fidi a Gien, dove la Pulzella era passata, per raccogliere informazioni, e l'intero paese ne attendeva le gesta, che effettivamente vi furono, anche se pagate ad alto prezzo.[4][17]
Senza neppure avvisare i suoi genitori[8], Giovanna partì da Vaucouleurs il 22 febbraio 1429, accompagnata da un manipolo composto da Jean de Metz, Bertrand de Poulengy, uomini di fiducia di Robert de Baudricourt, ciascuno accompagnato da un proprio servitore, da Richard Larcher, e guidata da un corriere reale, Colet de Vienne, diretta a Chinon.[4]
Il piccolo drappello percorse una non facile via fra territori contesi sino al castello di Chinon all'inizio del mese di marzo. Il fatto di essere scortata dagli uomini di un capitano fedele al Delfino probabilmente giocò non poco a favore dell'incontro con quest'ultimo.[4] Presentandosi al Delfino Carlo, dopo due giorni di attesa, nella grande sala del castello di Chinon, Giovanna sostenne di essere stata inviata da Dio per portare soccorso a lui e al suo reame[18].
Tuttavia, il Delfino, non fidandosi ancora completamente di lei, la sottopose ad un lungo esame in materia di fede, protrattosi per circa tre settimane, facendola interrogare da un gruppo di teologi[19] della giovane Università di Poitiers, nata nel 1422[20], sotto la guida di François Garivel, consigliere reale in materia di giurisprudenza.[4] Solo quando la giovane ebbe superato questa prova Carlo, convintosi, decise di affidarle un intendente, Jean d'Aulon, nonché l'incarico di "accompagnare" una spedizione militare - pur non ricoprendo alcun incarico ufficiale - in soccorso di Orléans assediata e difesa da Jean, Bastardo d'Orléans, mettendo così nelle sue mani, di fatto, le sorti della Francia.[5]
Ritratto di Giovanna d'Arco, dal registro del Parlamento di Parigi (1429) tenuto da Clément de Fauquembergue.[21]
Giovanna iniziò pertanto la riforma dell'armata trascinando con il suo esempio le truppe francesi e imponendo uno stile di vita rigoroso e quasi monastico: fece allontanare le prostitute che seguivano l'esercito, bandì ogni violenza o saccheggio, vietò che i soldati bestemmiassero; impose loro di confessarsi e fece riunire due volte al giorno, intorno al suo stendardo, l'esercito in preghiera, al richiamo del suo confessore, Jean Pasquerel. Il primo effetto fu quello di instaurare un rapporto di reciproca fiducia tra la popolazione civile ed i suoi difensori i quali, invece, avevano l'inveterata abitudine di tramutarsi da soldati in briganti quando non erano impegnati in azioni di guerra.[22][23] Soldati e capitani, contagiati dal carisma della giovane, sostenuti dalla popolazione di Orléans, si prepararono alla riscossa.
Giovanna d'Arco
Sebbene non le fosse stata affidata formalmente nessuna carica militare,
Giovanna divenne ben presto una figura centrale nelle armate francesi: vestita
da soldato, impugnando spada e bandiera bianca con raffigurato Dio benedicente
il fiordaliso francese ed ai lati gli Arcangeli Michele
e Gabriele, ormai comunemente conosciuta da tutti
come Jeanne la Pucelle ossia Giovanna la
Pulzella (così come le Voci l'avevano chiamata[24])
raccolse un gran numero di volontari da tutto il regno e guidò le truppe
infervorate in battaglia contro gli inglesi. Questi erano ormai arrivati a
porre l'assedio ad Orléans, chiave di volta della valle della Loira, nella
Francia centrale. Se la città fosse caduta, l'intera Loira meridionale sarebbe
stata presa;
Orléans era accerchiata dagli inglesi, che avevano costruito (o fortificato) otto fortezze intorno alla città, dalle quali tenevano l'assedio: le Tourelles (all'estremità del ponte sulla Loira), le bastie degli Augustins, di Saint-Jean-le-Blanc (sulla riva meridionale della Loira), di Saint-Laurent, di Saint-Loup, le tre dette "Londre", "Rouen" e "Paris" (sulla riva settentrionale della Loira), ed infine di Charlemagne (sull'isola omonima)[10]. Gli assediati erano tuttavia riusciti a tenere libera la porta di Bourgogne e quando Giovanna, lasciata Blois il 27 aprile, giunse sulla riva meridionale, in sella ad un destriero bianco e preceduta da un lungo corteo di preti intonanti il Veni Creator, di fronte al piccolo borgo di Chécy, il 29 aprile, trovò ad attenderla il Bastardo d'Orléans, che la pregò di entrare in città per quella via mentre i suoi uomini compivano manovre diversive; l'esercito ed i rifornimenti - necessari per sfamare la popolazione allo stremo - avrebbero invece atteso di poter essere traghettati attraverso il fiume non appena il vento fosse divenuto favorevole.[25]
L'incontro tra il giovane comandante e Giovanna fu burrascoso; dinanzi alla decisione di attendere che il vento girasse in modo da consentire l'ingresso dei rifornimenti e dei rinforzi, Giovanna rimproverò aspramente l'uomo di guerra, sostenendo che suo compito sarebbe stato quello di condurre lei e l'esercito direttamente in battaglia. Il Bastardo d'Orléans non ebbe neppure tempo di replicare poiché pressoché subito il vento mutò direzione e divenne favorevole al transito sulla Loira, consentendo l'ingresso per via d'acqua dei rifornimenti e dei rinforzi - circa 4000 uomini - che Giovanna aveva recato con sé.[4][25][26] Nel frattempo, sulla via per Orléans, Giovanna era stata inaspettatamente raggiunta da due dei suoi fratelli: Giovanni e Pietro, che si erano uniti ai soldati[27]. Dopo alcuni giorni, durante i quali venne presa la bastia di Saint-Loup, Giovanna attaccò le bastie maggiormente fortificate (bastie di Saint-Jean-le-Blanc e degli Augustins)[17] a sud del fiume, conquistandole il 6 maggio dopo una giornata di combattimenti; l'indomani, 7 maggio 1429, riuscì a rompere l'accerchiamento, guidando le truppe, pur essendo ferita ad una spalla da una freccia, tra il collo e la scapola, alla riconquista della bastia delle Tourelles, senza smettere di combattere o farsi curare sino al termine delle ostilità[28], rientrando nella città attraverso il ponte[25][29]. Il giorno seguente, l'8 maggio 1429, l'esercito assediante demolì le proprie bastie, abbandonando i prigionieri, e si dispose a dare battaglia in campo aperto. Giovanna, il Bastardo d'Orléans e gli altri capitani schierarono anch'essi le loro forze e per un'ora i due eserciti si fronteggiarono; alla fine, gli inglesi si ritirarono e Giovanna impose ai francesi di non inseguirli, sia perché era domenica, sia perché si stavano allontanando di loro spontanea volontà. La città era libera, finalmente. Giovanna e l'esercito, prima di tornarvi, unitamente al popolo, assistettero ad una messa a cielo aperto, ancora in vista del nemico.[30] Il successo fu fondamentale per le sorti della guerra, poiché esso impedì che gli anglo-borgognoni potessero occupare l'intera parte meridionale del paese e marciare verso il Sud fedele a Carlo e, inoltre, diede inizio a un'avanzata nella valle della Loira culminata nella battaglia di Patay.
Dopo soli due o tre giorni dalla liberazione di Orléans, Giovanna ed il Bastardo d'Orléans si misero in viaggio per incontrare il Delfino a Tours, seguendo l'armata reale sino a Loches[4][31]; in effetti, sebbene l'entusiasmo popolare si fosse acceso in un solo istante, così come l'interesse dei governanti, incluso l'imperatore Sigismondo, il rischio che si spegnesse con uguale facilità, lasciando solo il ricordo delle gesta alle poesie di Christine de Pisan o di Carlo d'Orléans (all'epoca prigioniero), era reale[26]. La corte era divisa e molti nobili tentati di trarre profitti personali dall'inaspettata vittoria, temporeggiando o suggerendo obiettivi bellici d'interesse strategico secondario rispetto al cammino che Giovanna aveva tracciato, lungo la Valle della Loira, sino a Reims. Il Bastardo d'Orléans, forte della propria esperienza militare, dovette esercitare tutta la sua influenza sul Delfino prima che questi si decidesse, infine, ad organizzare una spedizione su Reims.[25]
Il comando dell'armata reale, nuovamente radunata nei pressi di Orléans, il 9 giugno 1429, venne affidato al duca Giovanni II d'Alençon, principe di sangue, subito raggiunto dalle compagnie del Bastardo d'Orléans e di Florent d'Illiers di Châteaudun.[32] L'esercito raggiunse Jargeau l'11 dello stesso mese; al loro arrivo i francesi erano intenzionati ad accamparsi nei sobborghi della città ma furono quasi travolti da un'offensiva inglese; Giovanna guidò al contrattacco la propria compagnia e l'esercito poté acquartierarsi. Il giorno seguente, fu nuovamente Giovanna a risolvere un consiglio di guerra con irruenza, esortando ad attaccare senza esitazioni. Grazie ad un diversivo improvvisato dal Bastardo d'Orléans, le mura sguarnite vennero conquistate e così la stessa città. Durante le ostilità, Giovanna, con lo stendardo in pugno, incitava gli uomini che davano l'assalto; ella fu nuovamente ferita, questa volta colpita al capo da un pesante masso. Tuttavia, la Pulzella, caduta al suolo, fu subito sorprendentemente in grado di rialzarsi. Il 13 e il 14 giugno l'esercito francese, di ritorno ad Orléans, ripartì immediatamente per un'offensiva su Meung-sur-Loire. Con un attacco fulmineo il 15 giugno venne preso il ponte sulla Loira, e posta una guarnigione sullo stesso; l'esercito poi passò oltre, per accamparsi davanti a Beaugency.[25][33] La notte stessa gli inglesi tentarono di riprendere il controllo del ponte di Meung-sur-Loire con un assalto improvviso ma, respinti, si arroccarono nel castello di Beaugency. In effetti, in campo inglese era atteso soprattutto il corpo d'armata di rinforzo comandato da Sir John Falstof, uno dei più famosi capitani, che si era persino liberato del peso dei rifornimenti ed ora procedeva a marce forzate.[9][17][26] Pressoché contemporaneamente, tuttavia, anche l'esercito francese acquisiva un nuovo, e per certi versi scomodo, alleato, il Conestabile Arturo di Richemont, su cui pesava il bando dalle terre del Delfino per antiche controversie, alla testa dei suoi Bretoni.[25] Le reazioni all'interno dell'esercito furono per lo più ostili al Conestabile; il duca D'Alençon rifiutò di cedere il comando dell'armata reale a Richemont, che ne avrebbe avuto il diritto, in qualità di Conestabile di Francia, senza nemmeno avvisare il Delfino (ed eventualmente attendere le sue decisioni) ma senza neppure consultarsi con gli altri capitani o, quantomeno, col Bastardo d'Orléans, pur sempre cugino del sovrano.
Giovanna, per suo conto, maggiormente attenta ai bisogni dell'esercito e, al contempo, nel suo candore, incurante dei rancori e delle lotte intestine che dividevano la nobiltà, chiese al Conestabile se fosse pronto ad aiutarli onestamente; in altre parole, di offrire la propria parola e la propria spada al Valois; ricevuta da Richemont piena assicurazione su questo non esitò, di sua iniziativa, ad ammetterlo nell'esercito. In effetti, d'ora innanzi il Conestabile darà prova della propria lealtà a Carlo; tuttavia, l'accettazione nei ranghi dell'esercito di quell'uomo in disgrazia compromise non poco la fiducia accordatale. Qualcuno, probabilmente, glielo fece notare, ma con semplicità Giovanna rispose che aveva bisogno di rinforzi.
Questo era senz'altro vero. Il castello di Beaugency, vista arrivare la compagnia di Bretoni, si decise infine a capitolare. Gli inglesi negoziarono la resa contro un salvacondotto che permise loro di lasciare la città il 17 giugno. Con la spensieratezza e la volontà di riappacificazione che le erano proprie e con l'impeto della giovinezza Giovanna si era esposta a favore di un uomo in disgrazia, a rischio della fiducia stessa di cui ella godeva presso la corte.[23][26]
L'armata francese si rimise in cammino; all'avanguardia, le compagnie del
Bastardo d'Orléans e di Jean Poton de Xaintrailles, seguite dal Corpo d'armata principale,
comandato da La Hire, capitano di ventura e brigante che già aveva
partecipato all'assedio d'Orléans ma che ormai aveva sposato anima e corpo la
causa della Pulzella; alla retroguardia, il signore di Graville
e, questa volta,
La sera del 17 giugno l'esercito si vide sbarrare la strada da quello inglese, schierato in assetto da battaglia in campo aperto. Due araldi inglesi furono inviati a lanciare la sfida all'armata reale, posizionata in cima ad una bassa collina. Tuttavia, memore delle passate sconfitte, il Duca D'Alençon esitava ad accettare il confronto. Fu Giovanna che, giungendo dalle retrovie, diede risposta al nemico, invitandolo a ritirarsi nei propri alloggiamenti, vista l'ora tarda, e rimandando la battaglia al giorno successivo.[10] Quella notte, mentre un incerto Duca D'Alençon chiedeva conforto a Giovanna, che lo rassicurava sia della vittoria, sia della relativa facilità con cui sarebbe stata conseguita, l'esercito inglese, agli ordini del Conte John Talbot, si riposizionò per poter dispiegare le proprie forze, il giorno seguente, in modo da poter sorprendere i nemici in una strettoia in cui i francesi sarebbero dovuti necessariamente passare. Tuttavia, le cose andarono diversamente.[4]
Il 18 giugno 1429 un cervo attraversò il campo inglese, accampato presso Patay, ed i soldati, lanciato un alto grido, si misero al suo inseguimento; gli esploratori francesi, che si trovavano a poca distanza, poterono quindi indicare con rapidità e precisione la posizione del nemico ai capitani, che non si lasciarono sfuggire l'occasione. L'avanguardia dell'esercito, cui si unirono anche le compagnie di La Hire e della stessa Giovanna, attaccò improvvisamente il campo[25], prima che gli inglesi avessero modo di erigere la consueta barriera di rigidi stocchi dinanzi a loro, che solitamente impediva alla cavalleria di travolgerli e dava modo agli arcieri di compiere stragi tra le file del nemico. Senza questa protezione, in campo aperto, l'avanguardia inglese fu schiacciata dalla cavalleria pesante francese.[4] Inoltre, dopo questo primo caso fortuito, un'incredibile catena di errori, malintesi e tattiche errate lasciò l'esercito inglese nella più totale confusione. Dapprima alcuni contingenti tentarono di ricongiungersi in tutta fretta al Corpo d'armata principale, guidati dal Conte Talbot, ma questo fece credere al capitano dell'avanguardia che fossero stati sconfitti, al che egli stesso, accompagnato dal portastendardo, si diede ad una fuga disordinata, cui presto si unirono le altre compagnie poste a protezione del Corpo d'armata principale, lasciando il grosso dell'esercito esposto agli attacchi francesi senza più alcuna protezione. Sopraggiungendo, Sir John Falstof si avvide del pericolo e prese la decisione di ritirarsi, anziché soccorrere Talbot, mettendo in salvo almeno il proprio Corpo d'armata[4][23]. Per gli inglesi si trattò di una sconfitta completa quanto del tutto inattesa; in quella che sarebbe stata ricordata come la battaglia di Patay lasciarono sul campo oltre duemila uomini, mentre da parte francese si contarono solo tre morti e alcuni feriti.[4][5]
Gli echi della battaglia giunsero sino a Parigi, nella convinzione che ormai un attacco sulla città fosse imminente; in campo avverso la fama di Giovanna la Pulzella crebbe enormemente, almeno quanto la sua importanza nelle file francesi.[5]
La battaglia di Patay fu anche un modo per Giovanna di confrontarsi, ancora una volta, con la dura realtà della guerra; se era solita pregare per i soldati caduti da entrambe le parti, se aveva pianto ad Orléans nel vedere tanta violenza, qui, dopo una vittoria in campo aperto, vedeva i suoi soldati (peraltro non più trattenuti dalla guida del Bastardo d'Orléans, che aveva fatto regnare la disciplina ferrea imposta dalla Pulzella nell'esercito, ma affidati al comando del Duca D'Alençon) abbandonarsi ad ogni brutalità. Dinanzi ad un prigioniero inglese colpito con tale violenza da stramazzare al suolo Giovanna scese da cavallo e lo tenne tra le braccia, consolandolo ed aiutandolo a confessarsi, sino a che la morte non sopraggiunse per quel nemico che le aveva mostrato tutta la sua debolezza ed umanità[22].
Dopo Patay, molte città e piazzeforti minori, a partire da Janville, si arresero volontariamente all'esercito francese. Mentre l'armata reale rientrava, vittoriosa, ad Orléans, il sovrano indugiava, invece, a Sully-sur-Loire[10], probabilmente per evitare un incontro imbarazzante con Richemont[17]. Giovanna ed il Duca D'Alençon cavalcarono velocemente verso il Delfino, ottenendo, nonostante il recente ed eclatante successo, una fredda accoglienza. Il contrasto tra i colori della città in festa, che l'aveva già vista trionfante ed ora l'acclamava, e l'umore cupo, vitreo, della corte, dovettero creare un'aspra dissonanza nell'animo di Giovanna che, tuttavia, instancabile, non cessò di rassicurare ed esortare il gentile Delfino affinché si recasse a Reims[25]. Nei giorni seguenti, la Pulzella cavalcò a fianco del sovrano sino a Châteauneuf-sur-Loire, dove il 22 giugno si sarebbe tenuto consiglio su come proseguire la campagna militare. Qui ebbe luogo, nuovamente, il confronto tra coloro che consigliavano prudenza e attesa o, nella più ardita delle ipotesi, l'impiego dell'esercito per il consolidamento della posizione raggiunta, e la maggioranza dei capitani, meno influenti presso la corte, ma che avevano sperimentato sul campo il formidabile potenziale di cui disponevano. L'esercito non era solo forte di 12.000 armati, ma anche del loro entusiasmo e della loro lealtà, e, per la prima volta da lungo tempo, poteva contare anche sull'appoggio popolare, tanto che ogni giorno nuovi volontari venivano ad aggiungersi.[22] Infine, le insistenze della Pulzella, impaziente e dominata dal pensiero ricorrente della Consacrazione, affinché l'esercito marciasse risolutamente su Reims, vennero accolte.[10]
Il 29 giugno 1429, presso Gien, l'esercito "della Consacrazione", comandato, almeno nominalmente, dal Delfino in persona, si mise in marcia in pieno territorio borgognone.[4]
Lungo il tragitto, la prima città in mano nemica che l'armata reale incontrò
fu Auxerre che, all'intimazione di arrendersi, rispose,
per voce dei borghesi, che avrebbe concesso la propria obbedienza solo se Troyes, Châlons e la stessa Reims lo avessero
fatto; il consiglio di guerra decise di accettare.[4]
Preceduto da una lettera di Giovanna, l'esercito giunse quindi dinanzi a
Troyes, il luogo stesso in cui il Delfino era stato estromesso dalla successione
al trono. La nutrita guarnigione di inglesi e Borgognoni di Troyes rifiutò di
arrendersi e si dispose alla battaglia; per di più, viveri e rifornimenti
iniziavano a scarseggiare in campo francese; il consiglio dei capitani di
guerra, riunitisi dinanzi al Delfino, sembrava propenso a interrompere la
spedizione o, al limite, a raggiungere Reims lasciandosi alle spalle Troyes
ancora in mano anglo-borgognona. Giovanna, al limite
della pazienza, osò bussare alle porte del consiglio. Venne ricevuta con
scetticismo. Dinanzi alle difficoltà che le furono prospettate, obiettò che la
città sarebbe stata senz'alcun dubbio presa e, quando chiese che le venissero
concessi solo due o tre giorni, infine, le furono accordati. Senza porre tempo
in mezzo, la Pulzella fece schierare l'esercito in assetto da battaglia, e,
minacciosamente, l'artiglieria che faticosamente avanzava sino a che fosse a
tiro delle mura, agitando il proprio stendardo nel vento. I cittadini furono
presi dal panico, così come
Frattanto, il 16 luglio, il Delfino riceveva nel castello di Sept-Saulx una delegazione di borghesi di Reims che offrivano la totale obbedienza della città. Il giorno stesso l'esercito vi fece il suo ingresso e vennero iniziati i preparativi per la cerimonia della Consacrazione del Re a Reims.[4]
Il 17 luglio 1429, dopo aver trascorso la notte in veglia di preghiera, Carlo VII fece il suo ingresso nella cattedrale, tra la folla festante, insieme agli "ostaggi" della Santa Ampolla, quattro cavalieri incaricati di scortare la reliquia che dai tempi di Clodoveo era utilizzata per consacrare ed incoronare il Re di Francia, pronunciò i giuramenti prescritti dinanzi all'officiante, l'arcivescovo Regnault de Chartres; da un lato, presenziavano sei "pari ecclesiastici", dall'altro, sei "pari laici", esponenti della nobiltà, tra i quali, in rappresentanza del fratellastro prigioniero, il Bastardo d'Orléans.[25]
Dinanzi a tutti gli altri stendardi, però, a un passo dall'altare, era stato
posizionato quello bianco della Pulzella, e
Mentre i "pari laici" annunciavano al popolo la consacrazione e la festa s'iniziava per le vie della città, Giovanna si gettò dinanzi a Carlo, abbracciandogli le ginocchia, piangente, ed esclamando: «O gentile Re, ora è compiuto il volere di Dio, che voleva che vi conducessi a Reims per ricevere la Consacrazione, dimostrando che siete il vero re, e colui al quale il Regno di Francia deve appartenere»[22][35]
Dopo quella giornata, che aveva rappresentato l'apice delle imprese e dei progetti di cui Giovanna si sentiva investita, la ragazza si sentì avvolgere da un'aura di sconforto che non l'abbandonerà più, sino al giorno della sua cattura. Dopo la gioia di aver visto consacrare il suo re, di aver incontrato molti suoi compaesani che l'avevano vista partire come una folle visionaria e che, dopo aver affrontato il lungo viaggio sino a Reims, la ritrovavano a reggere il proprio stendardo nella cattedrale dinanzi a quello di tutti gli altri nobili e capitani, dopo essersi riconciliata coi genitori che sempre si erano opposti alla sua partenza ed ora la guardavano meravigliati e commossi[36], Giovanna avvertiva che ormai il suo compito era terminato. Confidando al Bastardo d'Orléans che era al suo fianco che avrebbe volentieri, ormai, lasciato le armi per tornare nella casa paterna[4], e che se avesse dovuto scegliere un luogo ove morire sarebbe stato tra quei semplici contadini che l'avevano seguita, semplici ed entusiasti, sentiva tutto il peso della missione di cui si era fatta carico e che le appariva oramai compiuta.[17][22]
In realtà, Giovanna lasciava un'eredità ideale e spirituale non da poco; in
un mondo di violenze e sopraffazioni aveva dimostrato, seguendo i propri
convincimenti religiosi, che era possibile riportare la pietà e la giustizia in
un ambiente che le aveva dimenticate da molto. Sia al suo arrivo ad Orléans,
sia alla formazione dell'esercito "della Consacrazione", Giovanna
aveva imposto ai combattenti di astenersi dal saccheggiare e taglieggiare le
popolazioni (talvolta le stesse che nominalmente avrebbero dovuto difendere),
proibito di uccidere nemici e prigionieri dai quali non si sarebbe potuto
trarre riscatto, cercato instancabilmente una "buona pace stabile"
con i nemici sia inglesi sia borgognoni[4]
senza stancarsi d'inviare loro lettere in cui li invitava a deporre le armi
sulla base del semplice amore cristiano; aveva galvanizzato il popolo a tal
punto che i più umili contadini così come i nobili si sentivano parte integrante
di una sola nazione.[22]
Questa eredità non andrà perduta con il suo supplizio. Ciò che in Giovanna era
frutto della fede, del dialogo con le sue Voci, continuerà a vivere
negli ideali di un popolo: l'idea di un'identità nazionale francese sarà presente
e centrale sino ai giorni nostri; il suo slancio verso una forma di guerra che,
pur nella violenza, risparmiasse i civili e non fosse condotta da capitani di
ventura, che sin troppo spesso si tramutavano in briganti, ma da ufficiali
della corona, porteranno sia alla formazione di un esercito nazionale
permanente, sia ai primi rudimenti del diritto di guerra. Questo avverrà
soprattutto con la promulgazione da parte di Carlo VII dell'«Ordinanza d'Orléans» del 1439 (che riprendeva
Dopo la Consacrazione, Carlo VII soggiornò per tre giorni a Reims, attorniato dall'entusiasmo popolare; infine, accompagnato dall'esercito, riprese il cammino, quando ormai gli echi di quell'impresa apparentemente impossibile si erano già sparsi per il paese. Entrò così a Soissons ed a Château-Thierry, mentre Laon, Provins, Compiègne ed altre città facevano atto di obbedienza al Re. L'armata reale trovava la strada spianata dinanzi a sé.[17] Giovanna cavalcava insieme al Bastardo d'Orléans e a La Hire, assegnata ad uno dei "corpi di battaglia" dell'esercito regio.[38] Mentre il successo arrideva al progetto di Giovanna, le invidie e gelosie di corte riaffioravano. Il giorno stesso della Consacrazione, tra le assenze, spiccava quella del Conestabile Richemont, che avrebbe dovuto reggere simbolicamente la spada durante la cerimonia ma che, ancora in disgrazia, aveva dovuto cedere l'incarico al Sire d'Albret.[25] Inoltre, era sempre più profonda la spaccatura tra i nobili che appoggiavano Giovanna ed avrebbero voluto dirigersi verso Saint-Denis per riconquistare poi la stessa Parigi e coloro che, nell'improvvisa ascesa del sovrano, vedevano un'opportunità per accrescere il proprio potere personale, soprattutto se fosse stato loro concesso il tempo necessario e se le relazioni con la Borgogna fossero migliorate. Fra questi ultimi, oltre a La Trémoïlle, favorito del re ed acerrimo rivale di Richemont, non pochi membri del Consiglio reale; prendere tempo, indugiare, acquisire potere ed influenza erano obiettivi diametralmente opposti a quelli della Pulzella, il cui fine era sempre stato solo uno, la vittoria, e la cui rapidità d'azione ora intralciava i piani della fazione più vicina a La Trémoïlle.[39]
Nel frattempo, l'esercito, partito da Crépy-en-Valois, il 15 agosto 1429, si trovò dinanzi l'armata inglese, schierata in formazione da battaglia, presso Montépilloy; questa volta, gli inglesi avevano preparato con cura la siepe di pioli che avrebbe impedito ogni carica di cavalleria frontale ed attendevano i francesi al varco; questi ultimi non riuscivano a far spostare il nemico dalle sue posizioni, nonostante gli sforzi della compagnia di La Hire che tentò invano di impegnarlo in battaglia per dare modo agli altri reparti di intervenire. Dopo una giornata spossante, tra il vento e la polvere, gli inglesi si ritirarono verso Parigi[40]. L'armata francese rientrò a Crépy, quindi raggiunse prima Compiègne e, da lì, Saint-Denis, luogo delle sepolture reali. Qui, per ordine di Carlo VII, iniziò lo scioglimento dell'"esercito della Consacrazione", in attesa delle trattative con la Borgogna che, oltre una tregua di quindici giorni, non approdarono mai a quella "buona pace stabile" che Giovanna si augurava. Il Bastardo d'Orléans e la sua compagnia vennero licenziati e fatti ripiegare su Blois, ad ispezionare inutilmente i territori del Ducato d'Orléans.[25]
Indubbiamente, l'atteggiamento della corte verso la Pulzella era mutato; a Saint-Denis Giovanna dovette evidentemente avvertire la differenza, le sue Voci la consigliarono, in quelle circostanze, di non procedere oltre. Questa volta, però, le sue parole furono accolte come quelle di uno dei tanti capitani di guerra al servizio della corona; l'aura d'entusiasmo che l'attorniava stava diminuendo, almeno presso la nobiltà.[22] Accanto a Giovanna, per il momento, rimanevano il Duca D'Alençon e La Hire.[39]
Il Re e la corte, infatti, anziché approfittare del momento propizio per marciare su Parigi, avevano iniziato una serie di trattative con il Duca di Borgogna, Filippo il Buono, al quale era stata affidata dagli inglesi la custodia della capitale, rinunciando ad adoperare le risorse militari di cui disponevano. Il 21 agosto, a Compiègne, città difesa da Guglielmo di Flavy, iniziarono a prendere forma le linee di una tregua più lunga. Effettivamente, gli inglesi semplicemente non avevano più risorse finanziarie per sostenere la guerra.[22] Ciononostante, la tregua con la potenza anglo-borgognona sembrava non tenere conto della debolezza della controparte e venne condotta, da parte francese, in modo da assicurare, di fatto, una pausa nelle ostilità senza ottenere significativi vantaggi in cambio.
Giovanna e gli altri capitani, nel frattempo, si attestarono presso le mura di Parigi; il Duca D'Alençon mantenne i contatti con la corte, all'oscuro delle trattative in corso, convincendo infine Carlo VII a raggiungere Saint-Denis.
L'8
settembre 1429 i
capitani decisero di prendere d'assalto Parigi. Giovanna
acconsentì all'offensiva, stanca di continui rinvii.[39]
Lasciato l'accampamento de La Chapelle, a metà
strada fra Saint-Denis e Parigi, l'esercito
prese d'assalto la porta "Saint Honoré" a colpi d'artiglieria, sino a
che i difensori del camminamento che la sovrastava non si ritirarono
all'interno; mentre D'Alençon comandava le truppe a
difesa dell'artiglieria, Giovanna si recò con la sua compagnia fin sotto le
mura della città, circondate da un primo ed un secondo fossato; il secondo era
allagato e qui la Pulzella dovette fermarsi, ordinando di gettare fascine e
altro materiale per riempirlo. D'improvviso, venne ferita da una freccia che le
attraversò la coscia[17].
Ciononostante, non volle lasciare la posizione; si ritirò al riparo del primo
fossato fino a sera, quando fu suonata
Il giorno seguente, nonostante la ferita, Giovanna si preparava ad un nuovo assalto, quando lei ed il Duca D'Alençon furono raggiunti da due emissari, il Duca di Bar ed il Conte di Clermont, che le intimarono, per ordine del Re, di interrompere l'offensiva e tornare a Saint-Denis. Giovanna ubbidì. Probabilmente rimproverata per quell'insuccesso[42] dovuto ad un'iniziativa neppure sua, ma essenzialmente decisa dai capitani che agivano in nome del Re[43], infine, Giovanna la Pulzella ritornò alle rive della Loira, dopo aver solennemente deposto sull'altare della chiesa di Saint-Denis la sua armatura.[44]
Il 21 settembre 1429, a Gien, venne disciolto definitivamente
dal Re l'esercito "della Consacrazione". Giovanna, separata dalle
truppe e dal Duca D'Alençon, fu
ridotta all'inazione; affidata al Sire d'Albret fu
condotta a Bourges,
ospite di Margherita di Tourolde, moglie di un
consigliere del sovrano, ove rimase tre settimane. Carlo VII, infine, ordinò a Giovanna di
accompagnare una spedizione contro Perrinet Gressart, comandante anglo-borgognone; il corpo di
spedizione, formalmente comandato dal Sire d'Albret,
pose l'assedio a Saint-Pierre-le-Moûtier,
il 4 novembre la città fu presa d'assalto e l'esercito più volte respinto;
infine, fu suonata
Giovanna ritornò a corte, presso il Re, trascorrendo il tempo principalmente a Sully-sur-Loire dopo aver passato il Natale a Jargeau. Stanca dell'inattività forzata, fra marzo ed i primi di aprile Giovanna si rimise in marcia, alla testa di circa duecento soldati comandati da Bartolomeo Baretta e, passando per Melun, giunse infine, il 6 maggio 1430, a Compiègne, difesa da Guglielmo di Flavy; la città, assediata, si opponeva ostinatamente alle truppe anglo-borgognone.[39]. A Montargis, il Bastardo d'Orléans venne raggiunto dalla notizia della nuova offensiva borgognona e si mise in viaggio per ottenere dal Re il comando di un Corpo d'armata. Lo ottenne. Troppo tardi, tuttavia, per soccorrere Giovanna che, il 23 maggio 1430, fu catturata durante una sortita insieme al suo intendente, Jean D'Aulon, sotto le mura di Compiègne[19][25].
La sera del 23 maggio 1430, mentre proteggeva la ritirata delle compagnie che stavano rientrando in Compiègne assediata, Giovanna fu strattonata da cavallo e costretta ad arrendersi al Bastardo di Wamdonne, al servizio di Jean de Luxembourg, vassallo del Re d'Inghilterra.[25] Il 6 dicembre dello stesso anno Giovanna venne venduta agli inglesi, dopo quattro mesi di prigionia nel castello di Beaurevoir, per la somma di 10.000 franchi tornesi, in qualità di prigioniera di guerra. Dopo un processo per eresia iniziato il 9 gennaio, Giovanna fu arsa viva nella piazza del mercato vecchio di Rouen il 30 maggio 1431.[46]
Giovanna interrogata dal cardinale di Winchester, dipinto di Paul Delaroche del 1824. Musée des Beaux-Arts, Rouen.
Giovanna lasciò la corte di CarloVII tra il marzo ed l'aprile 1430; ingaggiando nuovamente combattimenti sporadici con gli anglo-borgognoni, alla testa di contingenti in parte formati da volontari, in parte da mercenari, tra cui duecento piemontesi agli ordini di Bartolomeo Baretta[39], in parte agli ordini di Barbazan, nuovamente libero, che si unì a lei a Lagny. A maggio si rinchiuse nella città di Compiègne assediata e da lì iniziò una serie di sortite eclatanti ma con scarso esito. Il 23 maggio 1430 Giovanna tentò un attacco a sorpresa contro la città di Margny, dove trovò una resistenza più forte del previsto e, dopo essere stata respinta per tre volte, vedendo giungere al nemico altri rinforzi dalle postazioni vicine, diede ordine di rientrare al riparo delle mura di Compiègne[25].
Ad un certo punto, il governatore della città, Guglielmo di Flavy, diede ordine di chiudere le porte nonostante le ultime compagnie non fossero ancora rientrate, ordine che secondo alcuni costituirebbe una prova del suo tradimento, essendosi egli accordato segretamente col nemico per rendere possibile la cattura della Pulzella[39]; secondo altri, benché questa eventualità sia possibile, non è dimostrabile[47].
Ad ogni modo, mentre l'esercito rientrava nella città, Giovanna, che ne proteggeva la ritirata, circondata ormai da pochi uomini della sua compagnia, fu cinturata e strattonata da cavallo, dovendo arrendersi al Bastardo di Wamdonne insieme al suo intendente, Jean D'Aulon[25].
Fatta prigioniera insieme al suo intendente ed al fratello Pietro, Giovanna
fu condotta in un primo tempo alla fortezza di Clairoix,
quindi, dopo pochi giorni, al castello di Beaulieu-les-Fontaines
sino al 10 luglio, ed infine al castello di Beaurevoir. Qui, Giovanna venne trattata come una prigioniera
d'alto rango e, infine, riuscì a conquistarsi la simpatia di tre dame del
castello che, stranamente, portavano il suo stesso nome: Jeanne de Béthune, moglie di Jean
de Luxembourg, la di lei figlia di prime
nozze Jeanne de Bar ed infine Jeanne de Luxembourg,
zia del potente vassallo, che giungerà sino al punto di minacciare di
diseredarlo qualora la Pulzella fosse stata consegnata agli inglesi[48].
Del pari, Giovanna avrebbe ricordato con affetto queste tre donne durante gli
interrogatori, ponendole su un piano di rispetto immediatamente inferiore a
quello dovuto solo alla propria regina[49].
Dopo la morte di Jeanne de Luxembourg, tuttavia, la
Pulzella fu trasferita, tra novembre e dicembre, numerose volte in diverse
piazzeforti, sino a giungere, il 23 dicembre, a Rouen.
Dopo la cattura di Giovanna, il re non offrì un riscatto per la prigioniera, né
fece passi ufficiali per trattarne
Giovanna aveva già provato a sottrarsi alla prigionia sia a Beaulieu-les-Fontaines, approfittando di una distrazione delle guardie, sia al castello di Beaurevoir, annodando delle lenzuola per calarsi da una finestra per poi lasciarsi cadere al suolo; il primo tentativo fu sventato per un soffio, il secondo (causato dalla preoccupazione di Giovanna per una nuova offensiva anglo-borgognona, oltre che, probabilmente, dal sentore di essere in procinto di essere consegnata ad altre mani) ebbe come esito un trauma dovuto alla caduta talmente forte da lasciarla tramortita, tanto che, quando fu nuovamente rinchiusa, i medici temettero per la sua vita. La Pulzella tuttavia si riprese dalle contusioni e dalle ferite[51]. L'Università di Parigi, che sin dal momento della sua cattura ne aveva richiesto la consegna in quanto la giovane sarebbe stata "sospettata fortemente di numerosi crimini in odore di eresia", finalmente l'ebbe in custodia: il riscatto di Giovanna fu pagato dal Vescovo di Beauvais, Pietro Cauchon, nella cui diocesi era avvenuta la cattura[39] e la prigioniera, passando di castello in castello, forse per timore di un colpo di mano dei francesi teso a liberarla, giunse a Rouen il 23 dicembre 1430, sei mesi dopo la sua cattura dinanzi alle mura di Compiègne[52].
Qui la detenzione fu durissima: Giovanna era rinchiusa in una stretta cella del castello, guardata a vista da cinque soldati inglesi, tre all'interno della stessa cella, due al di fuori[27], mentre una seconda pattuglia era stata piazzata al piano superiore; i piedi della prigioniera erano serrati in ceppi di ferro e le mani spesso legate; solo per partecipare alle udienze le venivano tolti i ceppi ai piedi, che invece, la notte, erano saldamente fissati in modo che la ragazza non potesse lasciare il proprio giaciglio[39].
Le difficoltà nell'istruire il processo non mancarono: in primo luogo Giovanna era detenuta come prigioniera di guerra in un carcere militare e non nelle prigioni ecclesiastiche come per i processi d'Inquisizione[51]; in secondo luogo, la sua cattura era avvenuta ai margini della diocesi di Cauchon (probabilmente al di fuori)[22]; inoltre, l'Inquisitore generale di Francia, Jean Graverent, si dichiarò non disponibile[53] ed il vicario dell'Inquisizione di Rouen, Jean Lemaistre, rifiutò di partecipare al processo per "la serenità della propria coscienza" e perché non si riteneva competente che per la diocesi di Rouen; fu necessario scrivere nuovamente all'Inquisitore generale di Francia per ottenere che Lemaistre si piegasse, il 22 febbraio, quando le udienze erano già iniziate[39]; infine, Cauchon aveva inviato tre delegati, tra cui un notaio, Nicolas Bailly, a Domrémy, Vaucouleurs e Toul per trarre informazioni su Giovanna, senza ch'essi potessero trovare il minimo appiglio per formulare un solo capo d'accusa; sarebbe stato solo dalle risposte di Giovanna agli interrogatori che i giudici, ossia Pietro Cauchon e Jean Lemaistre, ed i quarantadue assessori[54] (scelti fra teologi ed uomini di Chiesa di fama), le avrebbero posto, che la Pulzella sarebbe stata giudicata, mentre il processo iniziava senza che contro di lei vi fosse un chiara ed esplicita imputazione[51].
Il processo a Giovanna ebbe inizio formalmente il 3 gennaio 1431, con atto scritto[27];
il 9 gennaio
1431, Pietro Cauchon, vescovo di Beauvais, ottenuta
la giurisdizione su Rouen (allora sede arcivescovile vacante), iniziò la
procedura ridefinendo il processo stesso, iniziato in un primo tempo "per stregoneria",
in uno "per eresia";
conferì infine l'incarico di "procuratore", sorta di pubblico
accusatore, a Jean d'Estivet, canonico di Beauveais che lo aveva seguito a Rouen[22].
La prima udienza si tenne pubblicamente il 21 febbraio 1431 nella cappella del
Castello di Rouen. La carcerazione non aveva fiaccato lo spirito di Giovanna;
sin dal principio delle udienze, richiesta di giurare su qualsiasi domanda,
ella pretese - ed ottenne - di limitare il proprio impegno a quanto concernesse
L'interrogatorio di Giovanna si svolse in maniera convulsa, sia perché
l'imputata era interrotta continuamente, sia perché alcuni segretari inglesi ne
trascrivevano le parole omettendo tutto ciò che fosse a lei favorevole, cosa di
cui il notaio Guillame Manchon
si lamentò minacciando di astenersi dal presenziare ulteriormente; dal giorno
seguente Giovanna fu così sentita in una sala del castello sorvegliata da due
guardie inglesi[51].
Durante la seconda udienza, Giovanna fu interrogata per sommi capi sulla sua
vita religiosa, sulle apparizioni, sulle Voci, sugli accadimenti occorsi
a Vaucouleurs, sull'assalto a Parigi in un giorno
in cui cadeva una solennità religiosa; a questo la Pulzella rispose che
l'assalto avvenne per iniziativa dei capitani di guerra, mentre le Voci
le avevano consigliato di non spingersi oltre Saint-Denis. Questione non
trascurabile posta quel giorno, sebbene in un primo momento passata quasi
inosservata, il motivo per cui la ragazza indossasse abiti maschili; alla
risposta suggeritale da quelli stessi che la stavano interrogando (ossia se
fosse stato un consiglio di Robert de Baudricourt,
capitano di Vaucouleurs), Giovanna, intuendo la
gravità di un'asserzione simile, rispose: "Non farò ricadere su altri una
responsabilità così pesante!". Quel giorno Cauchon,
forse toccato dalla richiesta della prigioniera del giorno precedente di essere
udita in confessione, non la interrogò personalmente, limitandosi a chiederle,
ancora una volta, di prestare giuramento.[22][56].
Durante la terza udienza pubblica, Giovanna rispose con una vivacità inattesa
in una prigioniera, arrivando ad ammonire il suo giudice, Cauchon,
per la salvezza della sua anima. La trascrizione dei verbali rivela anche una
vena umoristica inaspettata che la ragazza possedeva nonostante il processo;
alla domanda se avesse avuto rivelazione che sarebbe riuscita ad evadere dalla
prigione, rispose: "E io dovrei venire a dirvelo?"
L'interrogatorio successivo, sull'infanzia di Giovanna, i suoi giochi di
bambina, l'Albero delle Fate, intorno al quale i bambini giocavano,
danzavano ed intrecciavano ghirlande, non portò nulla di rilevante per gli
esiti processuali, né fece cadere Giovanna in affermazioni che potessero
renderla sospetta di stregoneria, come forse era negli intenti dei suoi
accusatori[57].
Di notevole rilevanza, invece, la presenza, tra gli assessori della giuria, di
Nicolas Loiseleur, un prete che si era finto
prigioniero ed aveva ascoltato Giovanna in confessione, mentre, come riferito
sotto giuramento da Guillame Manchon,
diversi testimoni ascoltavano nascostamente la conversazione, in aperta
violazione delle norme ecclesiastiche[39].
Nelle tre udienze pubbliche successive si accentuò il divario di prospettiva
tra i giudici e Giovanna; mentre i primi si accanivano con sempre maggiore
tenacia sul motivo per cui Giovanna portasse abiti maschili, la ragazza
sembrava a suo agio parlando delle sue Voci, che indicò provenire dall'Arcangelo
Michele, Santa Caterina e Santa Margherita, differenza evidente
nella risposta data circa la luminosità della sala in cui aveva incontrato per
la prima volta il Delfino: "cinquanta torce, senza contare la
luce spirituale!". Ed ancora, nonostante la prigionia e la pressione del
processo, la ragazza non rinunciava a risposte ironiche; ad un giudice che le
aveva domandato se l'Arcangelo Michele le fosse apparso nudo, Giovanna rispose:
"Credete che Nostro Signore non abbia di che vestirlo?"[58].
A partire dal 10 marzo 1431 tutte le udienze del processo furono tenute a porte chiuse,
nella prigione di Giovanna. La segretezza degli interrogatori coincise con una
procedura inquisitoriale più incisiva; si chiese
all'imputata se non ritenesse di aver peccato intraprendendo il suo viaggio
contro il parere dei suoi genitori; se fosse in grado di descrivere l'aspetto
degli Angeli; se avesse tentato di suicidarsi saltando giù dalla torre del
castello di Beaurevoir; quale fosse il
"segno" dato al Delfino che avrebbe convinto quest'ultimo a
prestar fede alla ragazza; se fosse certa di non cadere più in peccato mortale,
ossia se fosse sicura di trovarsi in stato di Grazia.
Paradossalmente, quanto più gravi furono le accuse mosse a Giovanna, tanto più
sorprendenti vennero le risposte. Giovanna affermò, circa la disobbedienza ai
genitori, che "Poiché era stato Dio a chiedermelo, avessi avuto anche
cento padri e cento madri (...) sarei partita ugualmente"; circa l'aspetto
degli Angeli, si spinse ben oltre quanto i suoi accusatori le chiedessero,
asserendo con naturalezza: "Vengono spesso tra gli uomini senza che
nessuno li veda; io stessa li ho visti molte volte in mezzo alla gente";
circa il presunto tentativo di togliersi la vita, ribadì che il suo unico
intento era quello di evadere; riguardo il "segno" dato al Delfino,
Giovanna narrò che un Angelo aveva consegnato al Delfino Carlo una corona di
grande valore, simbolo della volontà divina che guidava le sue azioni al fine di
far riconquistare a Carlo il regno di Francia (raffigurato dalla corona),
rappresentazione metaforica[27]
del tutto in linea con il modo di esprimersi del tempo, soprattutto riguardo
quanto si riteneva ineffabile[39];
riguardo il peccato e se ritenesse di essere in stato di Grazia,
Giovanna rimandò alla risposta che aveva già fornito durante le udienze
pubbliche ("Se non lo sono, che Dio mi ci metta; se lo sono che Dio mi ci
mantenga!"[59]).
Durante il sesto ed ultimo interrogatorio, gli inquisitori spiegarono infine a
Giovanna che esisteva una "Chiesa trionfante" ed una "Chiesa
militante"; l'imputata si limitò a riaffermare quanto aveva già
risposto:"Che Dio e la Chiesa siano una cosa sola, mi senbra
chiaro. Ma voi, perché fate tanti cavilli?"[60]
Gli stessi contemporanei che ebbero modo di presenziare agli interrogatori,
specialmente i più eruditi, come testimonia il medico Jean Tiphaine,
notarono l'accortezza e la saggezza con le quali Giovanna rispondeva[51];
al contempo difendeva la veridicità delle sue Voci, riconosceva
l'autorità della Chiesa, si affidava completamente a Dio, così come di lì a
pochi giorni, alla domanda se ritenesse di doversi sottomettere alla Chiesa,
avrebbe risposto: "Sì, Dio servito per primo"[61].
Il 27 e il 28 marzo furono letti all'imputata i settanta articoli che
componevano l'atto di accusa formulato da Jean d'Estivet.
Molti articoli sono palesemente falsi o quantomeno non suffragati da alcuna
testimonianza, meno che mai dalle risposte dell'imputata; tra essi si legge che
Giovanna avrebbe bestemmiato, portato con sé una mandragora, stregato
stendardo, spada e anello conferendo ad essi virtù magiche; frequentato le fate,
venerato spiriti maligni, tenuto commercio con due "consiglieri della sorgente",
fatto venerare la propria armatura, formulato divinazioni. Altri, come il
sessantaduesimo articolo, sarebbero potuti risultare più insidiosi, in quanto
ravvisavano in Giovanna la volontà di entrare in contatto direttamente con il
divino, senza la mediazione della Chiesa, eppure passarono quasi inosservati.
Paradossalmente, risultò di sempre maggior rilevanza l'uso di Giovanna di
portare abiti da uomo[62].
Si scontravano da un lato l'applicazione formale e letterale della dottrina,
che si appigliava a quell'abito maschile come ad un marchio d'infamia,
dall'altro la visione mistica di Giovanna, per la quale l'abito era cosa
da nulla se paragonato al mondo spirituale[63].
Il 31 marzo Giovanna fu nuovamente interrogata nella sua prigione e acconsentì
a sottomettersi alla Chiesa, purché non le fosse chiesto di affermare che le Voci
non provenissero da Dio; che avrebbe ubbidito ad essa purché Dio fosse "servito
per primo"[64][65].
Così trascorse la Pasqua, che quell'anno cadeva il primo giorno d'aprile, senza
che Giovanna potesse udire Messa o comunicarsi, nonostante le sue suppliche.
I settanta articoli in cui consisteva l'accusa contro Giovanna la Pulzella
furono condensati in dodici articoli estratti dall'atto formale redatto da Jean
d'Estivet; tale era la normale procedura inquisitoriale. Questi dodici articoli, in base ai quali
Giovanna era considerata "idolatra",
"invocatrice di diavoli", "blasfema",
"eretica" e "scismatica"[66],
furono sottoposti agli assessori ed inviati a teologi di chiara fama; alcuni li
approvarono senza riserve ma diverse furono le voci discordanti; uno degli
assessori, Raoul le Sauvage, ritenne che l'intero
processo dovesse essere inviato al Pontefice; il
Vescovo di Avranches rispose che non v'era nulla
d'impossibile in quanto Giovanna asseriva[22];
alcuni chierici di Rouen ritenevano, di fatto, Giovanna innocente o,
quantomeno, il processo illegittimo[39];
tra questi Jean Lohier, che riteneva il processo
illegale nella forma e nella sostanza[67],
in quanto gli assessori non erano liberi, le sedute si tenevano a porte chiuse,
gli argomenti trattati troppo complessi per una ragazzina, soprattutto, il vero
motivo del processo era politico, in quanto attraverso Giovanna
s'intendeva infangare il nome di Carlo VII. Per queste sue schiette risposte,
che oltretutto svelavano il fine politico del processo, Lohier
dovette abbandonare in gran fretta Rouen[22].
Il 16
aprile 1431
Giovanna fu colpita da un grave malessere accompagnato da un violento stato
febbrile, che fece temere per la sua vita, ma si riprese nel giro di pochi
giorni. Le vennero inviati tre medici, tra cui Jean Tiphaine,
medico personale della duchessa di Bedford, che poté
riferire che Giovanna si era sentita male dopo aver mangiato un pesce inviatole
da Cauchon, cosa che suscitò il sospetto di un
tentato avvelenamento, peraltro mai provato[68].
Due giorni dopo, tuttavia, Giovanna riuscì a sostenere la "ammonizione
caritatevole", alla quale ne seguì una seconda il 2 maggio,
senza che Giovanna cedesse su nulla, pur riconoscendo l'autorità del Pontefice.
Del resto, più di una volta la ragazza si era appellata al Papa; appello che le
era sempre stato negato nonostante la contraddizione evidente, non potendo
essere eretici e riconoscere al contempo l'autorità pontificia[39].
Il 9 maggio Giovanna, condotta nel torrione del castello di Rouen, si trovò
dinanzi Cauchon, alcuni assessori, e Maugier Leparmentier, il boia;
minacciata di tortura, non rinnegò nulla e rifiutò di piegarsi, pur confessando
la propria paura. Il tribunale decise infine di non ricorrere alla tortura,
probabilmente per il timore che la ragazza riuscisse a sopportare la prova[69]
e forse anche per non rischiare di apporre sul processo una macchia indelebile[39].
Il 23 maggio
furono letti a Giovanna, presenti numerosi membri del tribunale, i dodici
articoli a suo carico. Giovanna rispose che confermava tutto quanto aveva detto
durante il processo e che lo avrebbe sostenuto sino alla fine[70].
Il 24
maggio 1431
Giovanna fu tradotta dalla sua prigione nel cimitero dalla chiesa di Saint-Ouen, sul margine orientale della città, ove erano
già state preparate una piattaforma per lei, in modo che la popolazione potesse
vederla e udirla distintamente[27],
e tribune per i giudici e gli assessori. Più in basso, il carnefice attendeva
sul suo carro[71].
Presente Henri de Beaufort, vescovo di Winchester e cardinale, la
ragazza fu ammonita da Guillame Erard,
teologo, che, dopo un lungo sermone, domandò a Giovanna, ancora una volta, di abiurare i crimini
contenuti nei docici articoli dell'accusa[39].
Giovanna rispose: "Mi rimetto a Dio e al Nostro Signore il Santo
Padre"[72],
risposta che doveva esserle stata suggerita da Jean de La Fontaine,
il quale, pur nella sua veste di assessore, evidentemente aveva ritenuto
corretto informare l'imputata dei suoi diritti (fatto che gli sarebbe costato
l'esclusione dal processo e l'allontanamento da Rouen); inoltre, presso la
ragazza si trovavano i domenicani Isambart de la
Pierre e Martin Ladvenu, esperti delle procedure inquisitoriali[39].
Com'era prassi del tempo, l'appello al Pontefice
avrebbe dovuto interrompere la procedura inquisitoriale
e portare alla traduzione dell'imputata innanzi al Papa, tuttavia, nonostante
la presenza di un cardinale, Erard liquidò la
questione sostenendo che il Pontefice era troppo lontano[73][39],
continuando ad ammonire Giovanna per tre volte; infine, Cauchon
prese la parola ed iniziò a leggere la sentenza quando fu interrotto da un
grido di Giovanna: "Accetto tutto quello che i giudici e la Chiesa
vorranno sentenziare!"[74].
A Giovanna fu quindi consegnato una dichiarazione per mano dell'usciere, Jean Massieu; nonostante lo stesso Massieu
l'avvertisse del pericolo in cui incorreva firmandola, la ragazza siglò il
documento con una croce[39].
In realtà Giovanna, seppure analfabeta, aveva imparato a firmare con il suo
nome, "Jehanne", così come appare nelle
lettere che ci sono pervenute[51]
ed anzi la Pulzella aveva dichiarato durante il processo[75]
che era solita apporre una croce su una lettera inviata a un capitano di guerra
quando voleva significare ch'egli non doveva fare ciò che ella gli aveva
scritto; è probabile che tale segno avesse, nella mente di Giovanna, lo stesso
significato, tanto più che la ragazza lo tracciò accompagnandolo con un riso
enigmatico[76][39].
L'atto che Giovanna aveva firmato non era più lungo di otto righe, nelle quali
s'impegnava a non riprendere le armi, né portare abito d'uomo, né capelli corti[51],
mentre agli atti venne messo un documento di abiura di
quarantaquattro righe in latino[39].
La sentenza emessa era comunque durissima: Giovanna era condannata alla
carcerazione a vita nelle prigioni ecclesiastiche, a "pane di dolore"
ed "acqua di tristezza". Nondimeno, la ragazza sarebbe stata
sorvegliata da donne, non più costretta da ferri giorno e notte, libera dal
tormento dei continui interrogatori; quale dovette essere la sua sorpresa
quando udì le parole di Cauchon che ordinava:
"Conducetela là dove l'avete presa."[22]
Questa violazione delle norme ecclesiastiche fu con ogni probabilità voluta
dallo stesso Cauchon per un fine preciso, indurre
Giovanna ad indossare nuovamente l'abito da uomo per difendersi dai soprusi dei
soldati[51].
Gli inglesi, tuttavia, persuasi che ormai Giovanna fosse sfuggita loro di mano,
poco avvezzi alle procedure dell'Inquisizione, esplosero in un tumulto e in un
lancio di sassi contro lo stesso Cauchon[27].
Infatti solamente i relapsi, ossia coloro che,
avendo già abiurato, ricadevano in errore, erano destinati al rogo[39].
Nuovamente in carcere, Giovanna divenne oggetto di una collera ancora maggiore da parte dei suoi carcerieri; il domenicano Martin Ladvenu riporta che Giovanna gli riferì di un tentativo di violentarla da parte di un inglese, che, non riuscendovi, la percosse con ferocia[22][39].
La mattina di domenica 27 maggio, Giovanna chiese di alzarsi ed un soldato inglese le sottrasse gli abiti da donna e le gettò quelli maschili; nonostante le proteste della Pulzella, non gliene vennero concessi altri[27]. A mezzogiorno, Giovanna fu costretta a cedere[22][39]. Cauchon ed il viceinquisitore Lemaistre, insieme ad alcuni assessori, si recarono il giorno seguente alla prigione. Giovanna affermò coraggiosamente di aver ripreso l'abito maschile di propria iniziativa, poiché si trovava tra uomini e non in una prigione ecclesiastica come suo diritto, sorvegliata da donne, ove poter sentir messa; interrogata ancora, ribadì di credere fermamente che le Voci che le apparivano erano quelle di Santa Caterina e di Santa Margherita, di essere inviata da Dio, di non aver capito una sola parola dell'atto di abiura, ed aggiunse "Dio mi ha mandato a dire per bocca di santa Caterina e santa Margherita quale miserabile tradimento ho commesso acettando di ritrattare tutto per paura della morte; mi ha fatto capire che, volendo salvarmi, stavo per dannarmi l'anima!" ed ancora:"Preferisco fare penitenza in una sola volta e morire piuttosto che sopportare più a lungo la sofferenza di questa prigione"[77].
Il 29 maggio Cauchon riunì per l'ultima volta il
tribunale per decidere la sorte di Giovanna. Su quarantadue assessori,
trentanove dichiararono che fosse necessario leggerle nuovamente l'abiura
formale e proporle
Il 30 maggio 1431 entrarono nella cella di Giovanna due frati domenicani, Jean Toutmouillé e Martin Ladvenu; quest'ultimo la ascoltò in confessione e le comunicò quale sorte era stata decretata per lei quel giorno; nella sua ultima lamentazione, la Pulzella, vedendo entrare il vescovo Cauchon esclamò: "Vescovo, muoio per causa vostra". In seguito, quando questi si fu allontanato, Giovanna chiese di ricevere l'eucaristia. Fra Martin Ladvenu non seppe che cosa risponderle, poiché non era possibile ad un eretico comunicarsi e chiese allo stesso Cauchon come dovesse comportarsi; sorprendentemente, ed in violazione, ancora una volta, di ogni norma ecclesiastica, questi rispose di somministrarle l'eucaristia[78][39].
Giovanna fu condotta nella piazza del Mercato Vecchio di Rouen e fu data
lettura della sentenza ecclesiastica. Successivamente, senza che il balivo o il
suo luogotenente prendessero in custodia la prigioniera, fu abbandonata nelle
mani del boia, Geoffroy Thérage,
e condotta dove il legno era già pronto, di fronte a una folla numerosa
riunitasi per l'occasione[79].
Vestita di un lungo abito bianco e scortata da circa duecento soldati, salì
sino al palo di dove fu incatenata, sopra una gran quantità di legna[27].
In tal modo, non c'era possibilità per il boia di abbreviare il supplizio della
condannata, facendole perdere i sensi per l'impossibilità di respirare e
facendo poi bruciare il corpo già morto. La condannata sarebbe dovuta ardere
viva.
Giovanna, caduta in ginocchio, invocava Dio, la Vergine, l'Arcangelo Michele,
Santa Caterina e Santa Margherita; domandava ed offriva perdono a tutti. Chiese
una croce ed un soldato inglese, impietosito, prese due rami secchi e li legò a
formarne una, che la ragazza strinse al petto; Isambart
de La Pierre corse a prendere la croce astile della chiesa e gliela pose
dinanzi; infine, i soldati strattonarono il boia e gli ordinarono: "fà ciò che devi". Il fuoco salì veloce e Giovanna
chiese dapprima dell'acqua benedetta, poi, investita dalle fiamme, nel dolore
atroce, gridò a gran voce: "Gesù!"
Così morì Giovanna la Pulzella, a soli diciannove anni[22].
La sua firma (l'unica parola che la Pulzella, analfabeta, fosse in grado di scrivere)
Definendosi apertamente
L'abitudine di Giovanna di portare abiti maschili, dettata in un primo tempo dalla necessità di cavalcare ed indossare l'armatura, in carcere aveva probabilmente il fine di impedire ai malintenzionati di violentarla. Secondo Jean Massieu, infatti, riprese a vestire abiti femminili, ma le guardie inglesi le avrebbero tolto le stesse gettandole in cella il sacco nel quale vi era l'abito da uomo[81].
Nel 1449 Rouen capitolò dinanzi all'esercito francese, agli ordini del Bastardo d'Orléans, dopo decenni di dominazione inglese (in cui la popolazione era passata da 15.000 a 6.000 abitanti[39]). Scorgendo le avanguardie dell'armata reale, gli abitanti della città tentarono di aprir loro la porta di Sant'Ilario, ma furono giustiziati dalla guarnigione inglese. E tuttavia, la ribellione nella "seconda capitale del regno" era evidentemente ormai prossima. Il governatore, Somerset, ottenne un salvacondotto per sé ed i suoi, ed un'amnistia generale per coloro che avevano collaborato con gli inglesi nel periodo di occupazione; in cambio, lasciò sia Rouen sia altre città minori come Honfleur e, sano e salvo, si ritirò a Caen[25]. Quando Carlo VII entrò nella città fu accolto da trionfatore, e di lì a breve ordinò al suo consigliere Guillame Bouillé un'inchiesta sul processo subito da Giovanna diciotto anni prima[39].
Nel frattempo, molte cose erano cambiate o stavano cambiando: con la vittoria francese di Castillon del 1453 la Guerra dei Cent'Anni ebbe fine, pur in assenza di un trattato di pace; gli inglesi mantenevano solo il porto di Calais; lo scisma che travagliava la Chiesa era cessato con l'abdicazione dell'ultimo antipapa, Felice V, il Duca Amedeo VIII di Savoia; tra i negoziatori che giunsero a persuarderlo a sottomettersi all'autorità della Chiesa, lo stesso Bastardo d'Orléans, ormai braccio destro del re sul campo di battaglia, suo consigliere e suo rappresentante in tutte le questioni diplomatiche rilevanti; quell'anno, di ritorno da Londra, era riuscito a strappare, a Rennes, l'appoggio del Duca di Bretagna[25].
Nel 1452, il
legato pontificio Guillame d'Estouteville
e l'Inquisitore di Francia, Jean Bréhal, aprirono
anch'essi un procedimento ecclesiastico che portò ad un rescritto a
firma del Pontefice Callisto III che autorizzava una revisione del
processo del 1431, che durò dal 7 novembre
1455 al 7 luglio 1456. Dopo aver
ascoltato centoquindici testimoni, il precedente processo fu dichiarato nullo e
Giovanna fu, a posteriori, riabilitata e riconosciuta innocente[39].
Il suo antico compagno d'armi, il Bastardo
d'Orléans, ormai divenuto Conte di Dunois, fece
erigere in ricordo di Giovanna una croce nel bosco di Saint-Germain,
Quattro secoli dopo, nel 1869 il vescovo d'Orléans diede avvio ad una petizione per la canonizzazione della fanciulla. Papa Leone XIII diede inizio al suo processo di beatificazione.
Dipinto di Eugene Thirion
Giovanna venne beatificata il 18 aprile 1909 da papa Pio X e proclamata santa da papa Benedetto XV il 16 maggio 1920, dopo che le era stato riconosciuto il potere intercessorio per i miracoli prescritti (guarigione di due suore da ulcere incurabili e di una suora da una osteo-periostite cronica tubercolare, per quanto concerne la beatificazione, e la guarigione "istantanea e perfetta" di altre due donne, l'una affetta da una malattia perforante la pianta del piede, l'altra da "tubercolosi peritoneale e polmonare e da lesione organica dell'orifizio mitralico", per quanto concerne la canonizzazione[83]). Il governo francese, lo stesso anno, dichiarò festa nazionale l'8 maggio, giorno della battaglia di Orléans.
Giovanna venne dichiarata patrona di Francia; della telegrafia e della radiofonia.
È venerata anche come protettrice dei martiri e dei perseguitati religiosi, delle forze armate e di polizia. La sua memoria liturgica viene celebrata il 30 maggio.
Giovanna d'Arco viene richiamata esplicitamente nel Catechismo della Chiesa cattolica quale una delle più belle dimostrazioni d'un animo aperto alla Grazia salvatrice[84].
L'incredibile e breve vita, la passione e la drammatica morte di Giovanna d'Arco sono state raccontate innumerevoli volte in saggi, romanzi, biografie, drammi per il teatro; anche il cinema e l'opera lirica si sono occupati di questa figura.
Oggi è la Santa francese più venerata.
Giovanna d'Arco fu giustiziata sul rogo il 30 maggio 1431; l'esecuzione
procedette con modalità ben descritte nelle cronache dell'epoca. La condannata
fu uccisa direttamente dalle fiamme - contrariamente a quanto accadeva
solitamente per i condannati a morte, che erano soffocati dall'inalazione dei
fumi arroventati prodotti dalla combustione del legname e della paglia[22].
Alla fine, del corpo della Pulzella rimanevano solo le ceneri, il cuore e
qualche frammento osseo.
Secondo la testimonianza di Isambart de La Pierre, il
cuore di Giovanna non fu consumato nel rogo e, per quanto zolfo, olio o carbone
il carnefice vi mettesse, non accennava ad ardere. I resti del rogo furono
quindi caricati su un carro e gettati nella Senna, per ordine del conte di Warwick[27][39][85].
Nonostante la meticolosità dei carnefici, e le rigide disposizioni delle autorità borgognone e inglesi avessero reso molto improbabile questa eventualità, nel 1867 furono rinvenute alcune presunte reliquie di Giovanna d'Arco. Fra queste vi era anche un femore di gatto la cui presenza, a detta di chi ne sosteneva l'autenticità, era spiegabile con il fatto che uno di questi animali sarebbe stato gettato nel rogo in cui ardeva Giovanna d'Arco. Le recenti analisi condotte da Philippe Charlier hanno però dimostrato che le reliquie attribuite alla santa sono in realtà databili tra il VI e il III secolo a.C. e sono frammenti di una mummia egiziana (i presunti segni di combustione sono in realtà, secondo Charlier, il prodotto di un processo di imbalsamazione).[86][87]
Diversi sono i film prodotti sulla vita di Giovanna d'Arco:
Contesto storico
Vita di Giovanna
Spiritualità di Giovanna
Processo di condanna
GIOVANNA D’ARCO
Giovanna
d'Arco, la figlia più piccola di una famiglia di contadini del villaggio di Domrémy, in Francia, nacque nel 1412, in un periodo in cui
la nazione era sotto la dominazione inglese a seguito della sanguinosa Guerra
dei Cent'anni. Inoltre, la regione era stravolta da una guerra civile che
vedeva gli Armagnacchi, partigiani del re, schierati
con gli inglesi contro i Borgognoni. Uno dei fattori decisivi di questo
conflitto interno era rappresentato dal controllo della città di Orléans,
situata in posizione strategica sulla riva della Loira. Una sola cosa avrebbe
potuto salvare la Francia e farle superare il suo periodo più oscuro... un
miracolo.
Alla
morte dei re Enrico V di Inghilterra e Carlo VI di
Francia, avvenute entrambe nel 1422, gli inglesi proclamarono Enrico VI, allora ancora bambino, re di Inghilterra e di Francia.
L'erede legittimo al trono francese, Carlo VII, si rifiutò di abdicare
ribadendo i suoi diritti di successione al trono, ma non potè
far celebrare la sua incoronazione secondo il rito ufficiale che avrebbe dovuto
tenersi nella città di Reims, allora sotto il dominio inglese.
Nel
frattempo, nel villaggio di Domrémy,
Ella
stessa racconta:
La voce
mi disse che dovevo lasciare il mio paese per recarmi in Francia. E aggiunse
che avrei posto in assedio la città di Orléans. Mi ordinò di recarmi a Vaucouleurs, da Robert de Baudricourt,
capitano della città, che avrebbe affidato alcuni uomini al mio comando.
Risposi di essere una semplice ragazza che non sapeva andare a cavallo e
ignorava come si conduce una guerra.
Sin
dall'inizio le fu comunicata la sua missione: era stata scelta da Dio per
salvare la Francia e aiutare il Delfino Carlo VII, erede legittimo al trono.
Per portare a compimento quanto le era stato comandato avrebbe dovuto indossare
abiti maschili, brandire le armi e condurre un esercito.
Un
giorno, al suo ritorno dai giochi nei campi, Giovanna scopre che gli inglesi
hanno invaso il suo villaggio. Nascosta in una credenza, assiste alla morte
della sorella diciottenne, violentata e uccisa da alcuni soldati inglesi. In
seguito a questo tragico evento, Giovanna viene mandata a vivere dagli zii in
un villaggio vicino. Può sembrare alquanto improbabile che questa giovane
ragazza innocente, che non era mai andata a scuola e non sapeva né leggere né
scrivere, avrebbe un giorno condotto l'esercito francese alla vittoria sulla
grande potenza inglese. Eppure nel maggio del 1428, Giovanna, eliminato ogni
dubbio sulla sua chiamata divina in aiuto del re, scende in campo.
Dopo
aver lasciato per sempre l'unica casa che avesse mai conosciuto, Giovanna si
reca a Chinon per incontrare il Delfino. In un primo
momento, il re e i suoi sudditi non sanno cosa pensare delle parole di
Giovanna. Informato sulle presunte "visioni" della ragazza, ma
nutrendo al tempo stesso dei sospetti sulle sue intenzioni, Carlo incarica il suo
migliore arciere, Jean D'Aulon, di prendere il suo
posto. Arrivata al castello, Giovanna si accorge dello scambio e lo rivela
apertamente, suscitando lo stupore del re che le concede un colloquio privato.
Queste
le sue parole a Carlo:
Vi
porto notizie dal nostro Dio. Il Signore vi renderà il vostro regno, voi sarete
incoronato a Reims e scaccerete i nostri nemici. In questo sono la messaggera
di Dio: concedetemi la possibilità e io organizzerò l'assedio della città di
Orléans.
Persuaso
a credere alle parole di Giovanna, Carlo la mette a capo di un esercito con il
quale raggiungere la vittoria sugli inglesi e assicurare la città di Reims per
l'incoronazione. Nonostante siano molti a ritenere che la ragazza sia, nella
migliore delle ipotesi, un'isterica innocua e, nella peggiore, una vera e
propria minaccia non solo al trono, ma alla stessa vita del re, tutti
percepiscono in lei un'aurea magica e un'irresistibile capacità di persuasione.
Giovanna
si presenta sul campo di battaglia con indosso un'armatura bianca e con un
proprio vessillo. L'apparizione impressiona profondamente entrambi gli
eserciti, non abituati a vedere una donna impegnata nei combattimenti.
Schierata nelle trincee al fianco dei suoi uomini, la Pulzella d'Orléans
conduce alla vittoria i francesi, rinvigoriti e ispirati dal loro nuovo
comandante. Ma la battaglia non è ancora finita: Giovanna, determinata a
sferrare un altro attacco, raduna nuovamente le truppe per liberare per sempre
la città di Orléans dalla dominazione inglese. Nonostante il valore con cui
viene condotto l'attacco, gli uomini del suo esercito, già esausti, perdono
ogni speranza quando la ragazza viene colpita in pieno petto da una freccia. 1
francesi si ritirano e si prendono cura della giovane donna ferita.
Gli
eserciti di Francia continuano a trionfare sugli inglesi, sempre più
indeboliti, ma, ben presto, alla vista della carneficina causata dai numerosi
scontri, Giovanna inizia a provare un profondo rimorso. Sopraffatta dall'entità
del massacro, la Pulzella contatta gli inglesi proponendo loro di ritirarsi. Un
estratto della lettera inviata da Giovanna al re d'Inghilterra nel 1429 ce la
mostra come una paladina della fede:
Sovrano
d'Inghilterra, rendete conto delle vostre azioni al Re dei Cieli che vi ha
conferito il vostro sangue reale. Restituite le chiavi di tutte quelle care
città che avete strappato alla Pulzella. Ella è stata inviata dal Signore per
reclamare il sangue reale ed è pronta alla pace se le darete soddisfazione
rendendo giustizia e restituendo quanto avete preso.
Sovrano
d'Inghilterra, se non agirete in siffatta maniera, io mi porrò a capo
dell'esercito e, ovunque sul territorio di Francia trovi i vostri uomini, li
costringerò a lasciare il paese, anche contro la loro stessa volontà. Se non
dovessero obbedire a questo ordine, allora la Pulzella comanderà che vengano
uccisi. Ella è inviata dal Signore dei Cieli per scacciarvi dalla Francia e
promette solennemente che se non lascerete la Francia, ella, al comando delle
truppe, solleverà un clamore quale non si è mai udito in questo paese da mille
e mille anni. E confidate che il Re dei Cieli le ha conferito un potere tale da
rendervi incapaci di nuocere a lei o al suo coraggioso esercito.
Come
per miracolo l'esercito inglese si ritira. Si tratta di una vittoria
sorprendente che consente l'incoronazione di Carlo a Reims.
Una
volta incoronato, Carlo VII sembra pienamente soddisfatto. Non altrettanto
Giovanna, che decide di continuare a combattere. Le sue truppe, ridottesi ormai
da varie migliaia a poche centinaia di uomini, sono stanche e affamate. Aulon la informa che non soltanto Carlo ha abbandonato
l'intenzione di fare una guerra, ma sta ordendo dei piani per tradirla.
Rinnovando la sua fede in Dio, la giovane si sente obbligata a continuare a
combattere con determinazione fino a quando le "voci" non le ordinino
altrimenti.
Contro
ogni parere, la Pulzella fa volta verso Compiègne
dove ha luogo una battaglia durante la quale viene fatta prigioniera dai
Borgognoni, un gruppo di mercenari che sostengono gli inglesi. Venduta al suo
nemico, Giovanna si risveglia in una cella insieme alla sua Coscienza, che le
appare nelle vesti di un misterioso uomo incappucciato. L'uomo incrina la
volontà ferrea della giovane e le pone delle domande che la spingono a mettere
in dubbio la veridicità delle sue visioni.
Abbandonata
da tutti, Giovanna viene accusata di eresia e di stregoneria. Ha quindi inizio
il processo per dimostrare che è una strega. Più e più volte le vengono poste
domande sulle sue visioni e sulla sua fede nella Chiesa Cattolica. Fra una
seduta e l'altra, la giovane conferisce con la Coscienza, che critica la sua
fiducia in lui e la sua ingenuità.
Giovanna ne è devastata e comincia a perdere le speranze.
Poco
prima che il processo si concluda, viene chiesto alla Pulzella di rinunciare ai
suoi intenti passati e di giurare di non indossare più armi o abiti maschili,
pena la morte sul rogo. Giovanna acconsente e viene condannata alla prigione a
vita. All'ultimo momento, però, la giovane donna si rifiuta di sottomettersi al
giudizio di una corte inglese. La sua decisione fa di lei un'eretica
impenitente e la destina a morte certa.
Nel
maggio del 1431, Giovanna d'Arco venne bruciata sul rogo nella piazza del
Mercato Vecchio di Rouen.
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1431: Giovanna d'Arco, |
Giovanna d'Arco |
Come Giovanna d'Arco |
Giovanna d'Arco |
Giovanna D'Arco |
Giovanna d'Arco |
"Giovanna d'Arco" |
giovanna d arco |
Quando Giovanna
d'Arco nacque, |
Giovanna D'Arco |
Giovanna d'Arco |
GIOVANNA D'ARCO |
Il mistero della carità di Giovanna d’Arco
Il cardinale Roger Etchegaray ricorda la Pulzella d’Orléans nel giorno della sua festa |
del cardinale Roger Etchegaray
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30 maggio,
memoria di santa Giovanna d’Arco, vergine
La pietà di Jeannette
Secoli ci
separano da Giovanna d’Arco ma, come mai prima, ella sembra esserci contemporanea,
perché sono
Giovanna sa che
la patria non è un’astrazione o un pregiudizio, è una realtà molto concreta.
Non è con le idee che si costruisce una patria, ma con la terra che si attacca
alla suola delle scarpe.
Non c’è storia
più francese della sua. Non vi è una sola francese che possa considerarsi più
francese di lei per quella sua vivacità spontanea, che resta tale persino
durante la sua prigionia, per quel suo meraviglioso equilibrio che ne rivela le
umili origini. A detta di un critico letterario «il capolavoro più commovente e
più puro della lingua francese» è nato nel corso dei suoi processi, da un
«prodigioso dialogo tra la santità e la viltà» (R. Brasillach,
Le procès de
Jeanne d’Arc,
1932).
Di Giovanna,
della sua pietà di umile contadina, della simpatia e commozione che suscitò nel
popolo è stata testimone Rouen. Che non è soltanto la città del processo e di
un rogo crepitante di infamia, ma è soprattutto il luogo del «processo al
processo» (Régine Pernoud) e di una riabilitazione in
cui riecheggia tutta l’esistenza della Pulzella. Senza quelle testimonianze di
amici di infanzia, di compagni d’armi, di ex giudici, non sapremmo quasi nulla
della sua storia cristallina.
E questo
processo al processo, che illumina una vita così breve, ha potuto aprirsi e
svolgersi con tanta rapidità grazie alla simpatia popolare degli abitanti di
Rouen che non hanno mai dubitato di colei che bruciava davanti ai loro occhi
sulla piazza del Mercato Vecchio. Non conosco omaggio più commovente che sia
stato reso al popolo di Rouen di quest’affresco di volti pieni di compassione
inquadrati in primo piano dalla cinepresa muta di Dreyer
nella sua Passione di Giovanna d’Arco.
«Io mi rimetto a
Dio»
«Da quando il
caro Péguy se n’è andato vorremmo che Giovanna d’Arco
appartenesse soltanto ai bambini». Così scrisse Bernanos.
E aveva colto nel segno, quando suggeriva che solo lo sguardo dei bambini, come
quello che aveva Charles Péguy, poteva comprendere la
vicenda della Pulzella d’Orléans.
Alla missione
che Dio le indica, Giovanna non aggiunse nulla di suo. «Mi rimetto a Dio, il Re
del cielo e della terra», dichiarò a Giovanni di Chatillon che la torturava.
Péguy
non ha mai smesso di guardare stupito questo mistero:
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«E quel gran
generale che adunava intorno a sé città
Come si bacchian noci con una gran pertica
Non era altro in
mezzo al rumore e alle guerre civili
Che un’umile
fanciulla immersa nel suo amore per Dio».
Se è vero che
Giovanna d’Arco è santa, non è certo perché ha salvato la Francia, né tantomeno
perché è salita al rogo (che la Chiesa non ha mai riconosciuto come martirio),
ma semplicemente perché tutta la sua vita sembra essere in perfetta adesione a
quella che lei afferma essere la volontà di Dio. Ciò che lei fa, è ciò che Dio
vuole e unicamente questo: «Poiché era Dio ad ordinarlo» ha dichiarato con
forza «anche se avessi avuto cento padri e cento madri, anche se fossi stata
figlia di re, sarei partita».
Il limite di
ogni politica
Giovanna, eroina
della propria patria perché santa di Dio, ci indica che è la carità che viene da Dio che ci fa
amare la concretezza del particolare. È proprio questa carità frutto di grazia a stabilire il limite di ogni progetto politico,
così che sia alieno da pretese totalizzanti.
Il cristiano può
anche felicitarsi del fatto che la politica attuale non determini soltanto
obiettivi e mezzi, ma promuova finalità e valori, una concezione dell’uomo. Ma
in tal caso, il rischio di una sopravvalutazione si fa grande, molto più di
quello di una sacralizzazione, di una venerazione della politica. Niente è più
temibile di una politica dalle pretese totalizzanti. Come cristiani, qualunque
sia il nostro impegno politico, abbiamo il dovere di denunciare il carattere
limitato di tutte le ideologie, non appena hanno la pretesa di presentarsi come
via di salvezza; accettandole senza riserve, gli uomini rischiano di veder
sacrificata la propria integrità.
La missione
profetica della Chiesa, di tutti i suoi figli e figlie, consiste in primo luogo
nell’affermare che Dio soltanto è Dio, fonte e termine della storia; consiste
nella denuncia della sacralizzazione di ogni azione politica, soprattutto in
un’epoca in cui rischia di perder vigore il valore assoluto della fede.
La Chiesa
diverrebbe presto insignificante se cercasse di confondersi con gli interessi
di un progetto politico. Essa non deve temere di impregnare di fermento
evangelico la società offrendo la propria originalità, cioè la vita di uomini
riconciliati in Cristo attenti ai bisogni concreti innanzitutto dei poveri.
Coscienti, come Giovanna d’Arco di Péguy, che solo
per grazia riaccade nella storia degli uomini un nuovo inizio di vita cristiana: «Forse ci vorrebbe altro, mio
Dio, tu sai tutto. Sai quello che ci manca. Ci vorrebbe forse qualcosa di
nuovo, qualcosa di mai visto prima. Qualcosa che non fosse ancora mai stato
fatto. Ma chi oserebbe dire, mio Dio, che ci possa essere ancora del nuovo dopo
quattordici secoli di cristianità, dopo tante sante e tanti santi, dopo tutti i
tuoi martiri, dopo la passione e morte di tuo figlio. Insomma quello che ci
vorrebbe, mio Dio, ci vorrebbe che tu mandassi una santa… che riuscisse».
GIOVANNA D’ARCO
La vergine guerriera
di Cristiano Zepponi
Comunque sia, Giovanna nacque intorno al 1412, si dice il giorno dell’Epifania, da Jacques e Isabelle Romèe. Aveva quattro fratelli, tre maschi (Jacques, Pierre e Jean) e una femmina (Catherine), i cui nomi esemplificavano perfettamente la devozione e l’impegno della famiglia nel pellegrinaggio, rappresentando i quattro maggiori santuari medievali (Santiago, Roma, Gerusalemme, Sinai). Le tradizioni che hanno voluto fornire alla ragazza nobili natali, o, al contrario, umili origini, sono smentite dalla constatazione del ruolo di “laboureurs” del padre, una sorta di piccolo proprietario terriero piuttosto agiato; inoltre, ci si interroga ancora sul supposto cognome della madre, Romèe, che potrebbe invece rivelarsi un appellativo che sottolinea con ancora maggior forza la tendenza della donna al “cammino” religioso (“romei” erano detti i pellegrini sull’omonima via, diretta a Roma).
Merita di essere segnalata, inoltre, la particolare situazione del paese d’origine: durante la guerra che attraversa l’esistenza della fanciulla, e che lei visse così intensamente, questo era sottoposto al sovrano legittimo di Francia, il “delfino” Carlo di Valois, spodestato nel trattato di Troyes dei diritti al trono, chiamato per dileggio “re di Bourges” vista la scarsa estensione dei suoi possedimenti; ma, al contempo, si poteva considerare una “marca”, una regione di frontiera, circondata com’era dai domini borgognoni (il vicino paese di Maxey apparteneva, infatti, agli avversari più detestati del re).
La fanciulla appariva particolarmente devota, capace nelle faccende domestiche, tranquilla, anche se, seguendo la norma del tempo, non sapeva leggere né scrivere, vista l’assoluta mancanza di scuole a Domrèmy. Viveva in un mondo di credenze, conoscenze per lo più tecniche e manuali, leggende, tradizioni locali: e proprio in contatto con gli antichi miti celtici va considerata l’abitudine folkloristica, comune anche a Giovanna ed ai suoi coetanei, di appendere ghirlande di fiori, nel mese di maggio, all’ “albero delle fate” nel paese, in seguito fonte d’ispirazione per il “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare.
Nell’estate del 1425, all’età di tredici anni, Giovanna udì per la prima volta le “voci”, secondo la tradizione nel “Bois Chenu”, il bosco “magico”, di gallica sacralità, poco lontano dall’abitato. Le apparve, sostenne lei, l’arcangelo Michele: una figura ricca di significati nella Francia del tempo, protettore effettivo dei francesi, che dava il nome a Saint-Michel-au-Pèril-de-la-Mer (oggi noto semplicemente come Mont-Saint-Michel), tra Bretagna e Normandia; la piazzaforte isolata dal mare e consacrata all’arcangelo che resisteva agli inglesi, e resisteva con valore. Si diceva che l’arcangelo in persona vi fosse apparso, in cielo, armato di spada per proteggere le genti di Francia; ma improbabili apparizioni divine non erano necessarie, per spiegarne la resistenza: le caratteristiche del terreno (solo per brevi periodi si collegava, come accade oggi, alla terraferma) ne garantivano, unitamente al valore dei difensori, la difesa, nonostante l’abbondanza di mezzi profusa dagli inglesi, l’impiego di una delle più temibili menti militari del tempo, ovvero William de la Pole conte di Suffolk, ed il passaggio al nemico dell’abate del monastero, Robert Jolivet.
“Come una freccia dall’alto scocca/vola veloce di bocca in bocca”; così si diffuse la notizia della resistenza della fortezza, e, forse, arrivò, alle orecchie di una fanciulla tredicenne, alle prese con un periodo magico e terribile, il passaggio all’età adulta, la tempesta ormonale, le prime perdite di sangue, anche se non manca chi sostiene che la ragazza soffrisse di disturbi mestruali, o addirittura ne fosse priva (ibid., pag. 38). Come Maria, allontanata dal Tempio dopo il primo ciclo, anche la fanciulla poteva esserne turbata; comunque sia, alla stessa età della Vergine ricevette una visita angelica, seppur differente nella sostanza. Le parlarono, più tardi, Margherita d’Antiochia e Caterina d’Alessandria. I contenuti erano impegnativi: la missione che Dio le assegnava era, nientemeno, che liberare la Francia.
Doveva quindi recarsi in “Francia” (le terre del Delfino), e liberare Orlèans, sentinella avanzata dei possedimenti reali lungo la Loira, sotto assedio inglese dall’ottobre del 1428.
D’altro canto, l’Europa pullulava di “profetesse”, spesso di umili origini, che arrivavano a trattare da pari a pari con i grandi del tempo, con sorti differenti: si pensi a Caterina da Siena, a Brigida di Svezia, a Orsolina Valerii, a Constance de Rabastens. Le “voci” di Giovanna non dovevano destare, quindi, reazioni esagerate: ma di certo un grande scalpore, specie in una comunità ridotta come quella di Domrèmy. Del caso si occupò allora Robert de Baudricourt, capitano della piazza; inizialmente consigliando di curarne i mali con la medicina degli schiaffi, forse assorbito da altre, più pressanti incombenze; solo nel gennaio del 1429 decise di darle ascolto, sicuramente spinto dal buon nome del padre di lei, Jacques: e rimase per lo meno turbato dal colloquio. La inviò quindi da Renato d’Angiò e dal duca di Lorena, suoi signori feudali, che però si tirarono indietro dalla faccenda.
Per questo, dopo averne richiesto l’autorizzazione, il capitano de Baudricourt la inviò direttamente, senza esitare, al Delfino, non prima che il parroco l’avesse accuratamente esorcizzata.
Jacques d’Arc
sognava un incubo ricorrente, secondo alcuni, nel quale
Il 22 febbraio, però, la ragazza, in abiti maschili, salì a cavallo, con una scorta di armati, e partì verso il castello di Chinon, distante seicento chilometri, residenza del “suo dolce delfino”, come lo chiamava lei; ed il vecchio Jacques non provò neanche a fermarla.
Nessuno sapeva come aveva imparato a cavalcare.
Il viaggio seguì sentieri secondari, snodandosi per gran parte in territorio borgognone, in pieno inverno, “quando i lupi si nutrono di vento” secondo un accompagnatore, Bernard de Poulengy. Il 6 marzo, una domenica, trecento cavalieri assistettero al suo ingresso nella sala grande del castello; il re, allora, le indicò alcuni cortigiani, per mettere alla prova le sue capacità, e verificarne la guida divina. Ma nonostante nulla lo caratterizzasse, né il suo volto fosse conosciuto fuori dalla corte, lei gli s’inginocchiò davanti, con decisione.
E quando lui le chiese un segno, si disse, lei rispose che glielo avrebbe dato, sì. Ma davanti alle mura di Orlèans.
C’è chi sostiene che Carlo avesse buon’occhio, e ne intuì il potenziale; per altri, la disperazione e lo sconforto per le ripetute sconfitte militari francesi (dagli esordi ad Azincourt fino alla sconfitta del 12 febbraio di quell’anno nel tentativo di liberare Orlèans) spinsero un re senza terra, figlio di padre impazzito, ad affidarsi a quell’ultimo appiglio di speranza, confuso groviglio di istanze religiose e patriottiche, in un tempo in cui l’idea di nazione distava ancora cinque secoli. Comunque sia, inviò la fanciulla nell’unica struttura universitaria di un certo livello ancora in funzione nei suoi territori, l’Università di Poitiers (nata nel 1422), dove la ragazza fu interrogata a lungo. Ne furono studiate, sembra per due settimane, a marzo, ortodossia, devozione, verginità, su cui ella montava il suo castello profetico.
Dinanzi ad una giuria di teologi, rispose a tutte le domande, a volte anche con humour, come quando un teologo di Limoges le chiese se le “voci” parlassero francese; “Meglio di voi”, lo liquidò Giovanna.
E poiché superò ogni prova, da quel momento divenne “la pulzella”, la Vergine.
Il maestro in teologia Jean Erault ricordò allora la profezia di una tale “Marie d’Avignon”: “Molte armi mi sono apparse; per un attimo, ho avuto paura di esser io a doverle portare. Mi fu detto però di non temere: erano destinate non già a me, bensì ad una fanciulla vergine che sarebbe venuta dopo di me e che avrebbe liberato il regno”.
E’ proprio questa, la sua grande novità; Giovanna non si accontentava di profetizzare.
“Gli uomini combatteranno e Dio donerà la vittoria”, disse. E lei, tra questi.
Lei stessa scelse lo stendardo, con Dio assiso sull’arcobaleno, affiancato da due angeli recanti tra le mani il giglio di Francia. Cristo era indicato con il trigramma IHS, d’origine francescana. La sua spada, da lei intravista durante una visione, conficcata nella terra (con singolare richiamo al ciclo bretone), e recuperata da un cavaliere appositamente inviato a Sainte-Catherine-de-Fierbois, recava incise cinque croci. Le venne inoltre fornita un’assistenza militare nella forma di un piccolo gruppo d’aiutanti, paggi, araldi. Alla fine d’aprile, seguendo un’abitudine dell’epoca, la ragazza inviò una lettera di sfida ai suoi avversari, ed in specie al re d’Inghilterra ed al reggente di Francia duca di Bedford, oltre che all’esercito occupante: “..rendete alla Pulzella, che è inviata da Dio, il Re del Cielo, le chiavi di tutte le città che avete preso e violato in Francia..”.
Da sei mesi Orlèans resisteva, e dai sei mesi le comunicazioni con l’esterno erano interrotte, eccetto attraverso la porta rivolta verso Gien. Giovanna vi entrò il 29 aprile. Il suo temperamento si impose nei confronti dell’effettivo comandante della città, Giovanni (figlio illegittimo del duca d’Orlèans), con cui entrò subito in conflitto, rimproverandogli eccessiva prudenza.
Il suo giudizio prevalse, e la notizia del suo arrivo rinforzò il morale dei difensori.
“Sgombrate il campo, nel nome del Signore e secondo la sua volontà”, aveva ingiunto agli inglesi; le rispose un coro di insulti, l’atmosfera si surriscaldò velocemente, e si narra di un breve ma feroce scontro verbale tra la fanciulla ed il comandante avversario, Glasdale, da lei soprannominato Glacidas, con ironico riferimento al gracidare delle rane. E proprio in un fiume poco distante, di lì a poco, quest’ultimo sarebbe affogato; allora cominciarono a chiamarla “strega”.
Il 4 maggio iniziò l’attacco francese, che, dopo la sosta per il giovedì dell’Ascensione, proseguì nei giorni seguenti. Giovanna fu ferita due volte, il 6 ed il 7, la prima volta al piede e la seconda al collo. Rifiutò ogni cura, eccetto un impacco d’olio e lardo, e ritornò a battersi.
L’8 maggio 1429, Orlèans fu liberata. La Francia tutta, alla notizia, esplose in un entusiasmo sincero, ed ammirato. La ragazza in armatura diceva il vero.
Ma Giovanna, la Pulzella, aveva le idee chiare. La liberazione di Orlèans era un segno, estremamente chiaro, del volere divino: l’incoronazione di Carlo di Valois come legittimo sovrano dei francesi, secondo la tradizione dei re franchi, nella cattedrale di Reims. Ci si è a lungo interrogati sulla funzione di questa richiesta: appare, in effetti, assolutamente superflua nel consacrare il ritrovato potere del re. Ma l’intima religiosità popolare tendeva a vedere nel re terrestre un riflesso del Cristo Re celeste; e tale, nelle menti più semplici, si poteva considerare solo chi seguiva l’antico rito del santo vescovo Remigio, solo chi cingeva la corona sull’altare della cattedrale.
Carlo era un uomo freddo, influenzabile, timoroso; pertanto, reputando di non avere niente da perdere, pensò di avere qualcosa da guadagnare, e accettò.
Per evitare di attraversare i domìni inglesi, ancora troppo solidi, si scelse un itinerario ad arco, passante per Auxerre, Troyes, lo Champagne. Ma l’arrivo di ingenti rinforzi inglesi, sotto il comando di John Talbot conte di Shrewsbury (meglio noto all’epoca come “Achille”) e di John Falstolf (il “Falstaff” shakespeariano delle “Allegre comari di Windsor”..) costrinse ad una revisione dei piani: prima occorreva affrontare questo pericoloso avversario.
Il nuovo comandante dell’armata del Delfino, Giovanni II duca d’Alençon, aveva allora ventun’anni; e si disse, allora, che tra i due si manifestò subito una certa simpatia, nonostante la moglie di lui. D’altra parte, le malelingue non mancavano, ed il successo della fanciulla ispirava, come sempre accade, non poche antipatie a corte. Ma, di certo, Giovanna prese a chiamarlo “il bel duca”, e questi ricambiò donandole un cavallo, nero, bellissimo. L’intesa tra questi due giovani, casta o meno, divenne perfetta: l’armata- forte di 600 “lance”, cavalieri pesanti, e numerose compagnie di ventura- prese ai primi di agosto Jargeau, dove la Pulzella fu di nuovo ferita alla testa da una pietra, ma ebbe il tempo di salvare la vita del suo comandante.
Gli urlava, in mezzo alla mischia, “Gentile duca, hai forse paura? Non sai che ho promesso a tua moglie di portarti indietro sano e salvo?”, mostrando, al solito, ironia e sfrontatezza.
I difensori della fortezza furono massacrati, tutti.
Caddero poi Meung-sur-Loire, il 15 giugno, e Beaugency il 16. Infine, per la prima e unica volta, Giovanna conobbe l’ebbrezza della vittoria sul campo. A Patay, finalmente, Azincourt fu vendicata: Talbot e Falstolf caddero prigionieri, sul campo rimasero, per alcuni, diecimila inglesi (ibid., pag. 67). La strada per Reims era aperta.
Il ruolo di Giovanna in battaglia, per la verità, appare ancora oggi poco chiaro. Seppur portatrice di uno stendardo, ovvero, in ogni caso, di un simbolo di comando, le fu sempre precluso, dopo Orlèans, un ruolo di guida. La sua funzione era, indubbiamente, psicologica: il morale dell’esercito cresceva a dismisura alla sua sola vista. In più, mostrava una particolare, e misteriosa, conoscenza delle tecniche d’assedio, appariva eccellente nel cavalcare e nel difendersi, era convinta sostenitrice, in ogni caso, dell’assalto. Ciononostante, al processo sostenne sempre di non aver ucciso nessuno, in vita sua. Ma la sua funzione di guida, d’ispiratrice di entusiasmo messianico, restano indubitabili.
La cavalcata per Reims cominciò a Gien, e durò venticinque giorni; la Pulzella ed il duca d’Alençon scortarono il loro re al battesimo. Giovanna invitò
alla cerimonia anche il duca di Borgogna; questi non si premurò di risponderle,
ma un suo tacito assenso sembra indiscutibile, visto l’appoggio offerto da
molte sue città dello Champagne (Auxerre, Troyes, Chalons). In quei giorni, le fortune del re, e della sua
Pulzella, toccarono lo zenith. Tutti volevano
vederla, tutti volevano omaggiarla, i cavalieri stessi cercavano di apparirne
degni. Alla sera del 16 luglio, l’armata arrivò alle porte di Reims. La mattina
seguente, dopo aver prelevato
L’incoronazione, per le genti di Francia, costituì un momento inebriante: e poiché quella era l’origine della ragazza, lei lo sapeva bene. Christine de Pizan arrivò a dedicarle versi nei quali la immaginava già alla conquista della Terrasanta, dopo aver ristabilito la pace in Europa; alcuni giurarono di aver visto il cielo attraversato da bianchi cavalieri alati, altri sostennero che Giovanna, appagata dalla cerimonia, si sarebbe presto ritirata. Ma le ragioni della politica, si sa, non procedono parallele a quelle delle aspettative popolari, e delle speranze. Per la prima volta, le idee della maggiore artefice del successo, e del maggiore beneficiario, cominciarono a divergere.
Probabilmente l’ispirazione le venne dalle “voci”, che fino a quel momento non le avevano mai mentito; ma fatto sta che i “falchi”, raccolti attorno alla Pulzella, proposero l’immediata prosecuzione dell’offensiva, stavolta in direzione di Parigi, che subiva pesantemente il fascino della “liberatrice”. L’ esercito era stato equipaggiato nel frattempo da banchieri dell’epoca, tra cui Jacques Coeur. Ma anche gli inglesi si prepararono con cura: fecero affluire dall’Inghilterra tremilacinquecento tra cavalieri ed arcieri, frettolosamente impiegati nonostante fossero stati organizzati per la crociata in Boemia, contro gli eretici hussiti; per la prima volta, dei crociati furono cioè impiegati contro la “soldatessa di Dio”, che però cominciava a suscitare forti perplessità nel mondo cristiano. Un’armata crociata poteva essere impiegata contro altri cristiani solo se questi fossero stati chiaramente eretici; e Giovanna, agli occhi di molti, si stava dimostrando sempre più pericolosa, e, quindi, sempre più demoniaca.
A Filippo di Borgogna fu affidato il governo di Parigi; e questi ricambiò appoggiando il suddetto esercito con settecento armigeri piccardi.
Nonostante sembrasse imminente una tregua con la Borgogna, la strada aperta verso Parigi spinse il novello re di Francia, ora Carlo VII, a tentare l’impresa. Tra Parigi e Compiègne, il 15 agosto di quell’anno, i due eserciti si incontrarono.
Ma fu una giornata particolare, e, un po’ per la riluttanza di entrambi gli schieramenti (gli inglesi temevano un altro rovescio, i francesi volevano soprattutto raggiungere Parigi), un po’ per le condizioni climatiche (caldo afoso, nebbia fitta), quello strano carosello di soldati che apparivano e scomparivano all’orizzonte terminò con un nulla di fatto.
A corte, il ministro La Trèmoïlle
manteneva importanti rapporti, economici e politici, con
Tra questi ed il loro obiettivo, restava solo un’incognita: Giovanna.
Parigi, a dire il vero, non avrebbe mai aperto le porte alla Pulzella, stretta com’era in un forte lealismo nei confronti del duca di Borgogna e di Enrico, re di Francia e d’Inghilterra. Al tempo stesso un assalto di cristiani contro altri cristiani avrebbe rappresentato un evidente caso politico; ed una sconfitta sarebbe stata uno smacco al prestigio del neonato re Carlo.
Fu proprio ciò che accadde: l’attacco
dell’8 settembre, Natività di Maria nel calendario cristiano, verso
La Pulzella pretendeva che i suoi soldati mantenessero, sempre, una condotta pura, in linea con i dettami evangelici; ma, in questo caso, attaccare proprio quel giorno fu molto peggio di una sconfitta: fu un errore.
Il giorno dopo, re Carlo ordinò all’esercito di ritirarsi a Saint-Denis. Giovanna aveva perso sul campo, e, quel ch’è peggio, a corte. L’armata venne sciolta.
Quel che ne rimaneva, dopo essere arretrato verso la Loira, fu impiegato, nell’inverno del 1429, contro Perrinet Gressart, pittoresca figura di brigante, capobanda, mercenario, che occupava all’epoca il Nivernais, saccheggiando i reali domini. Chiaramente, la Pulzella perdeva rapidamente potere, e questo impiego, contro un avversario trascurabile, ne era testimonianza. Nondimeno, il bandito seppe darle filo da torcere, resistendo a La Charitè-sur-Loire con tanta efficacia da vanificare l’impiego, da parte reale, di una nuova, enorme bocca da fuoco, detta “La Bergère”. In quello stesso periodo, Giovanna continuò ad accumulare nemici: stavolta si tratta di una tale Catherine de La Rochelle, sedicente veggente con cui la ragazza era entrata in contatto tramite un francescano, Frate Richard. Ebbene, questa “profetessa” sosteneva di essere visitata, ogni notte, da una “dama bianca” (altre “voci”..) che insisteva affinché la Pulzella si recasse dal re, per portargli certi misteriosi tesori che l’ipotetica visione le avrebbe indicato. Ma Giovanna era caratterizzata, anche, da un’ironia tagliente, e, a tratti, sprezzante; dopo aver vegliato insieme per due notti, con esito scontato, le “suggerì” d’occuparsi di casa, marito e figli.
Ma Catherine, evidentemente, sapeva coltivare il seme della vendetta, a lungo, se, più avanti nel tempo, arrivò a testimoniare contro di lei, dopo essere stata, a sua volta, arrestata.
L’attivismo febbrile che la caratterizzava, quasi intuendo la fugace avventura che avrebbe avuto in sorte, non accennava a placarsi; né lo placarono la patente di nobiltà concessa ai genitori con tanto di araldo, né l’esenzione di Domrèmy dalle tasse regie, né gli omaggi della sempre riconoscente cittadinanza di Orlèans, nel gennaio del 1430. Per ultimo, e più importante, non lo placava l’avvio della tregua con la Borgogna, che certo non favoriva un gesto di aperta ostilità come l’attacco a Parigi, ancora fedele al suo duca Filippo. Ma le voci dalla città parlavano di sordi malumori, e silenti complotti, e l’orecchio della fanciulla vi prestavano particolare attenzione. Se re Carlo si lasciava beffare dai borgognoni, che nel frattempo stavano occupando l’ Oise, fedele al re, occorreva forzargli la mano, e mostrargli il pericolo di un patto con la Borgogna.
Alla fine di marzo Giovanna lasciò Sully, con duecento mercenari piemontesi agli ordini di Bartolomeo Baretta. Passò per Melun e Lagny-sur-Marne (dove, pare, riportò un bambino in vita il tempo necessario per il battesimo: un miracolo abbastanza comune al tempo e chiamato in Francia “rèpit”, “tregua”), diretta verso Compiègne, assediata dai borgognoni. Qui prese Margny, una delle fortezze costruite dagli avversari per l’assedio: ma il loro contrattacco la colse sola, fuori dalle mura della città, che le si chiusero davanti. A Chinon, profeticamente, pare avesse detto: ”Durerò un anno, non di più”.
Venne catturata da Lionel de Wamdonne, luogotenente di Jean de Luxembourg conte di Ligny, vassallo borgognone, il 23 maggio dell’anno 1430, un martedì.
Carlo VII, il suo “dolce re”, non provò ad
intavolare una trattativa, né a liberarla in alcun modo, nonostante la sua
corona dorata derivasse, in gran parte, da lei. Il granduca d’Occidente Filippo
III di Borgogna, che si trovava a guerreggiare da quelle parti, volle
incontrarla, per poi impegnarsi altrettanto decisamente a minimizzare gli
effetti del colloquio, mostrando invece un certo fastidio per
La corte di Carlo fece lo stesso: prese cioè a ridicolizzarla, a screditarla agli occhi della Francia, minimizzando il suo contributo (enorme, e ben più evidente di quelle misere manovre politiche) nella guerra; era, lei, il prodotto residuo di un periodo passato, e non più gradito, un contenitore usato, ed inutile, da riscattare oltretutto a peso d’oro: il gioco non valeva la candela, tanto valeva eliminarla dalle coscienze.
Il cancelliere del regno arrivò a sostenere che la fanciulla si era “perduta per la sua superbia”, e che era pronto a sostituirla un pastorello, “emulo”, proveniente dal Gevaudan. Rapidamente, l’Università di Parigi, il 26 maggio, chiese, in forma epistolare, che la ragazza fosse processata dall’Inquisitore di Francia, in quanto sospetta d’eresia.
Giovanna, in pratica, fu abbandonata da tutti, come sovente accade quando l’astro del successo comincia ad oscurarsi, ed il viale del declino si fa più prossimo. Per sei mesi fu sballottata, in prigionia, tra Piccardia, Artois, e Normandia; ma soprattutto, nella torre del castello di Beaurevoir.
Come accade con le fiere, catalizzò, da subito, un’enorme attenzione, specie nelle inedite vesti di prigioniera inerme. Figure di rilievo o meno volevano vederla, ora, docile ed immobile: tra questi, Isabella del Portogallo, consorte del duca di Borgogna, che pare ne rimase affascinata al punto da incedere in suo favore.
Come prevedibile, dato il carattere del soggetto, Giovanna tentò una rocambolesca fuga dalla torre, calandosi lungo la struttura, forse esasperata dalla separazione con il fratello, Pierre, e Jean d’Aulon, suo “attendente” ed amico; ma cadde, e si ferì seriamente. Non se lo sarebbe mai perdonato.
Tuttavia, la pena fu mitigata dall’amicizia
di tre dame, Jeanne de Luxembourg, zia del suo
vincitore,
Contro di lei, ufficialmente, si muoveva ormai l’Inquisizione, nella figura del vescovo di Beauvais Pierre Cauchon, che appare personaggio amletico, e complesso: un po’ collaborazionista, un po’ arrivista, forse sincero sostenitore del trattato di Troyes, e, quindi, del re d’Inghilterra e Francia, Enrico VI. A settembre la sua più influente alleata, Jeanne de Luxembourg, era passata a miglior vita; in più, l’Inghilterra mise sul piatto fiumi di denaro per ottenere la prigioniera, ovvero diecimila lire tornesi, oltre che l’influenza di Cauchon. Al principio di novembre, forse ad Arras, Giovanna passò in mani inglesi. Carlo VII osservò la vicenda, in silenzio.
Arrivò a Rouen il 23 dicembre di quel lungo
1430; il 9 gennaio, Pierre Cauchon aprì il processo,
che si divideva in due fasi: “l’istruttoria”, fondata sulle testimonianze
raccolte su una supposta cattiva fama della Pulzella, ed una “ordinaria”, con
l’invito a pentirsi, o, se strettamente necessario, la tortura e
Giovanna conosceva la fama degli inglesi nel turpiloquio (erano chiamati Godon in terra francese, storpiando la bestemmia preferita oltremanica, “god damn”), ed ebbe modo di verificarla personalmente. Le dicevano che fosse una strega, oltre che una puttana, forse col preciso obiettivo di sfiancarne il morale. Pare fosse fatta oggetto di continue attenzioni da parte dei suoi carcerieri, ma nessuno sa se queste arrivarono allo stupro. Il che, peraltro, non stupirebbe.
Il duca di Bedford, reggente di Francia, fu il vero patrocinatore del processo, pur senza interventi diretti, e senza palesi irregolarità. Ma nella corte vi erano sue creature, né il profondo senso del processo va ricercato fuori dal quadro politico. Per quanto regolare a livello procedurale, questo rimaneva senza dubbio influenzato dalla volontà di colpire re Carlo attraverso colei che della sua incoronazione era stata artefice. Colpendo Giovanna, avrebbero delegittimato il re di Francia.
Nella prima fase, almeno, la Pulzella non rischiava la morte: sarebbe bastato ammettere l’eresia, e spogliarsi quindi dalle vesti sacre, per essere forse confinata in uno dei tanti monasteri che, purtroppo, adempivano a questo compito in tutto il continente. Ma Giovanna mostrava di credere alle sue “voci”, e le difendeva con successo, nonostante l’Europa del periodo cominciasse ad affrontare quella fase persecutoria, e bigotta, che va sotto il nome di “caccia alle streghe”: donne spesso sole, e vulnerabili, ree di essere state iniziate all’arte divinatoria.
A partire dal 21 febbraio la ragazza fu
interrogata, sei volte in pubblico e altre in privato, nella sua cella, senza
mai aver diritto ad un difensore, da alcune delle menti più esperte in campo
teologico, quelle dell’Università di Parigi; non mostrò timore per la sua
sorte, né, come lecito aspettarsi da una contadinella analfabeta, commise passi
falsi nelle deposizioni: ed i dotti teologi, che facevano di tutto per
nasconderlo, arrivarono a temerla, oltre che, almeno in parte, ammirarla. Le fu
impedito di assistere alla messa, le sue gambe vennero incatenate, per
impedirle di fuggire;
Furono studiate le sue consuetudini religiose, le sue abitudini, le sue conoscenze; inoltre, fu svolta un’indagine nel suo paese natale, Domrèmy, soprattutto riguardo l’ “albero delle fate”, il “Bois Chenu” ed altri rimasugli di spiritualità celtica, che si rivelò favorevole all’accusata: ma questi verbali non figurarono tra gli atti.
Alle richieste di giuramento, rispose che l’avrebbe fatto, ma si riservò il diritto di tacere sugli argomenti che le “voci” non volevano fossero affrontati; alla domanda se gli inglesi fossero “nemici di Dio”, che non lo sapeva, ma in ogni caso avrebbero dovuto andarsene dalla Francia, e solo dopo i due regni, riconciliati, avrebbero potuto convivere, e organizzare una crociata; finché gli fu posta una difficile, ed acuta, domanda-trabocchetto:
“Giovanna, sei in grazia di Dio?” Avesse risposto ‘sì’, avrebbe peccato d’orgoglio; con un ’no’, avrebbe negato quello che, fin’allora, aveva rappresentato.
“Se non ci sono, Dio mi ci metta; se ci sono, mi ci mantenga”.
Da poco, e con difficoltà, aveva imparato a scrivere il suo nome.
Un altro punto controverso, cui i giudici si mostrarono particolarmente interessati, fu quello della sua fedeltà alla Chiesa: e lei rispose che era sì incondizionata, ma in primis rivolta alla Chiesa celeste (“Chiesa trionfante”) e solo dopo a quella terrestre (“Chiesa militante”), dei prelati e dei teologi.
Il suo naturale umorismo si manifestava spesso, sbeffeggiando domande particolareggiate: “I patroni celesti hanno i capelli?”, le chiesero, e lei, senza scomporsi, “E perché mai dovrebbero tagliarseli?”; o ancora, “Indossano delle vesti?” ”E che, si deve pensare che Dio non abbia di che vestirli?”. E, così, disorientava, sbalordiva, e innervosiva i suoi accusatori.
Forse, insieme a quello delle “voci”,
l’altro punto sensibile era quello dell’abito maschile, ed i suoi avversari se
ne accorsero presto: “La donna non vestirà abito d’uomo, né l’uomo abito di
donna”, recitava infatti il Deutoronomio
(22,5), “chi lo farà, sarà abominevole agli occhi di Dio”, e lo stesso doveva
avvenire con i capelli, come ricordato con forza da Paolo di Tarso; oltre a
ciò, la sua condotta andava a scontrarsi con la tendenza, nel periodo, a
favorire una certa standardizzazione (e “corporazione”) del vestiario, in linea
con la morale pubblica (almeno secondo la Chiesa), in base quindi al sesso ed
al mestiere d’appartenenza. A peggiorare le cose, Giovanna, così abbigliata,
aveva osato prendere i sacramenti, e quindi mostrarsi al cospetto di Dio. “Per
quello che dipende da me, io non cambierò d’abito per fare
La tecnica adottata nei colloqui era, in effetti, molto dura; accadeva fosse interrogata per ore, e spesso più volte al giorno, per accelerarne il crollo psicologico. Inoltre, l’interrogatorio prevedeva rapidi cenni su ogni argomento (i settantadue capi d’imputazione), cambiando continuamente discorso, affinché la ragazza cadesse in contraddizione, e potesse essere più facilmente appurata la sua fede eretica.
Gli inquisitori le chiesero, a più riprese, se avesse fatto benedire stendardo e armi (come d’altronde era tradizione, ed era probabile fosse accaduto), ma lei, forse per proteggere quei chierici, negò sempre. Tante volte gli inglesi erano fuggiti, in battaglia, alla sua vista, e quindi quegli strumenti dovevano, ai loro occhi, avere qualcosa di sacrilego. ”Perché lo stendardo è entrato all’incoronazione a Reims, prima degli altri capitani di guerra?”, le chiese il giudice, a marzo. ”Era stato alla pena; era ben giusto che stesse all’onore”. S’informarono su un supposto “segno” ricevuto a Chinon, all’inizio dell’avventura, gli rinfacciarono alcuni esempi di devozione nei suoi confronti avvenuti nel momento di maggiore successo, continuarono a sfiancarla raccogliendo indizi su presunti “sabba” avvenuti a Domrèmy. La sua resistenza, ogni giorno di più, s’indeboliva.
Possiamo, ora, anche ammettere che Giovanna
d’Arco vivesse una religiosità ingenua, che fosse solo una pastorella
analfabeta, che credesse che i vari santi parteggiassero per l’una o per
l’altra parte nel conflitto: ma subì una pressione psicologica senza pari, e
fu, a lungo, in grado di dominare
Ed infatti, ad un certo punto, la ragazza parlò, chiarendo però che solo allora le voci l’avevano autorizzata a farlo: il “segno” di Chinon consisteva in un angelo, disceso, dall’alto, nel tardo pomeriggio di marzo o aprile del 1429, nella camera del Re. Qui- continuò- aveva portato all’arcivescovo di Reims, per consegnarla al Re, una corona aurea profumata. Questo, quindi, era il “segno”. E questa era la prova attesa da quel gigantesco apparato inquisitorio, che avrebbe potuto legittimare il proprio operato solo con un’ammissione di colpa: ma, in questo caso, lo sconcerto e la meraviglia, in tutti, furono inenarrabili.
Giovanna, quindi, era sfiancata, e lo dimostrava arrivando a minacciare i suoi avversari: “Voi dite d’esser mio giudice, e non so se lo siete. Ma fate attenzione a non giudicar male. Io ve ne avverto affinché, se Nostro Signore vi castigherà, io abbia fatto il mio dovere avvisandovi”.
Da sabato 17 a giovedì 22 marzo, gli inquirenti si riunirono per chiudere il “processo d’ufficio”, ed il 24 i verbali dell’interrogatorio furono letti alla prigioniera. Il 27 dello stesso mese, si aprì la seconda fase: il “processo ordinario”.
A questo punto le venne sottoposto l’elenco delle accuse, che contava settantadue punti: ma Giovanna lo rifiutò integralmente.
Il promotore Jean d’Estivet la apostrofava pesantemente, con accuse numerose e circostanziate: “incantatrice e indovina, falsa profetessa, invocatrice e scongiuratrice di malvagi spiriti, superstiziosa, dedita alle arti magiche, malpensante, scismatica, poco ferma e poco sicura nella fede, di fede sacrilega, idolatra, apostata, maldicente e malfacente, bestemmiatrice nei confronti di Dio e dei santi, scandalosa, sediziosa, turbatrice e osteggiatrice della pace, incitante alla guerra, crudelmente assetata di sangue umano e incitante a spanderne, del tutto dimentica e svergognata quanto alla decenza e al riserbo consoni al suo sesso, rivendicante spudoratamente l’uso dell’abito infame e dello stato degli uomini d’arme, per questo e per altri motivi ancora abominevole a Dio e agli uomini, prevaricatrice della legge divina, di quella naturale e della disciplina ecclesiastica, seduttrice di principi e di gente semplice […], usurpatrice dell’omaggio dovuto solo al culto divino, eretica o quanto meno fortemente sospetta d’eresia”.
Riassumendo, le accuse sono fondamentalmente le tre precedentemente trattate: la provenienza divina delle “voci”, l’abito maschile, il rifiuto dell’intermediazione della chiesa visibile nel rapporto con quella celeste.
Ad onor del vero, non tutti gli assessori approvarono il pamphlet di accuse; ed alcuni, con discrezione, arrivarono a contestare l’intero sistema processuale. Ma ormai gli eventi correvano, veloci, lungo un sentiero sgombro, e sarebbe servito ben altro, per fermarli.
Fino al 31 marzo, Sabato Santo, furono
letti gli articoli; dal 2 al 5 aprile ci si tornò a riunire. Tuttavia, da
settantadue, i capi d’accusa furono ridotti a dodici, per evitare eccessive
ripetizioni, e forse anche per accelerare
Nel frattempo, però, Giovanna, che tra auliche riflessioni ed incertezze teologiche continuava ad essere solo una ragazza, cedette, stavolta dal punto di vista fisico.
Lunedì 16 aprile, due giorni prima che si svolgesse una seduta per convincerla a confessare e pentirsi, la Pulzella visse un forte attacco febbrile, vomitando più volte: fu subito visitata da tre valenti medici, tra cui quello della duchessa di Bedford (Jean Tiphaine).
Giovanna sostenne che la causa del malessere fosse una carpa inviatele dal vescovo Cauchon; molti, subito, pensarono invece che avesse di nuovo tentato il suicidio. Il conte di Warwick sembrava preoccupato che la prigioniera potesse morire prima di essere adeguatamente punita; ma si dice che il governatore di Rouen si lasciò scappare che bisognava tenerla in vita per il rogo.
Per curarla, e per rinforzare la propria fama nel turpiloquio (era ironicamente chiamato Benedicite..), appena arrivato Jean d’Estivet, il suo accusatore, prese ad accusarla con forza, inveendo di fronte ad un avversario inerme.
La parola puttana, allora, risuonò più volte.
Ma Giovanna era giovane, e di buona tempra: si rimise in fretta.
Due giorni dopo, quindi, i lavori ripresero; due settimane dopo, fallita l’ ”esortazione” alla confessione, si procedette alla pubblica ammonizione.
Jean de Châtillon, maestro teologo e canonico di Evreux, lesse un sermone complesso, strutturato intorno ai sei peccati di cui la ragazza era considerata colpevole: orgoglio, indisciplina, indecenza, arroganza, ostinazione, impudenza. Se non si fosse pentita, la via era chiara, indicata da secoli di tradizione procedurale: il braccio secolare della giustizia terrena. La chiesa l’avrebbe dunque abbandonata, ed il suo destino sarebbe stato scontato. ”Rileggete le carte procedurali, la mia posizione vi è chiaramente esposta”, rispose alla proposta di correggere finalmente la sua condotta.
Il suo destino appariva segnato.
Il 9 maggio fu minacciata di tortura dai suoi giudici e dai numerosi assessori presenti; una consuetudine abbastanza diffusa, ed interpretata anche da chi ne faceva uso come un mezzo per indurre alla confessione, senza arrecare (per quanto possibile) danni irreparabili, ed abbreviare l’iter processuale: era, insomma, quasi una forma caritatevole di (dubbia) pietà. Ma non se ne fece nulla, forse perché le condizioni di Giovanna erano già abbastanza critiche, e si temeva per la sua salute; o forse perché la ragazza capì, e se ne difese con successo: “Anche se voi mi doveste straziare le membra e far uscire l’anima dal corpo, non vi direi niente. E se vi dicessi qualcosa, dichiarerei subito dopo che me l’avete fatta dire con la forza”.
Gli inglesi, che da una posizione defilata ma concreta attendevano una precisa conclusione, cominciarono a perdere la pazienza: Giovanna doveva confessare, a tutti i costi. E probabilmente, contro ogni moderna regola giuridica, il conte di Warwick, invitati a cena il 13 maggio il vescovo di Cauchon e altri, non mancò di farlo notare, con decisione.
I dottori di Rouen, riuniti, decisero il 19 di organizzare una pubblica cerimonia, in cui farla confessare. Era la sua ultima possibilità, fu sottolineato, di evitare il braccio secolare, e con esso il fuoco. Probabilmente, a spingere in questa direzione erano in questa fase coloro che avevano più a cuore la sua sorte: era nel suo interesse. E, dopo una pressione di questo tipo, probabilmente esausta nel corpo e nella mente, accettò di abiurare, il 24 maggio, in una cerimonia, organizzata in fretta e furia, al cimitero di Saint-Ouen.
Quel giorno, con (involontario?) sadismo, il magister Guillaume riprese il passo del Vangelo di Giovanni (15,1-6) sull’unità della chiesa: ”Io sono la vera vite, il Padre mio è il coltivatore. Ogni tralcio che in me non dà frutto, lo getterò via.. Chi non rimane in me sarà gettato come tralcio e seccherà; e, raccolto, sarà buttato nel fuoco a bruciare..”.
Ed il rogo era lì, a ricordarlo.
Giovanna, affranta, ebbe solo un sussulto, sentendo nominare il suo re, ed esplose: “Non nominatelo, egli è buon cristiano!”. Il suo appello all’autorità del papa, benché perfettamente lecito, fu lasciato cadere. Un documento di poche righe, di abiura, le fu sottoposto. E la Pulzella, di fronte ad una vasta folla, che non voleva perdersi lo spettacolo, lo sottoscrisse, con mano incerta, forse sostenuta da qualcuno.
Secondo alcuni era stravolta al punto da non capire cosa accettava, per altri fu minacciata di finire immediatamente sul rogo, il notaio Manchon sostenne che, addirittura, rise.
Per altri ancora, tracciò un cerchio, simbolo sarcastico, che usava già da tempo per indicare i documenti indegni di considerazione.
Tra gli altri impegni assunti al momento dell’abiura, c’era quello, fondamentale, della rinuncia all’abito maschile. Nella prigione inglese dove fu portata, le furono recapitati abiti femminili, che indossò, per la prima volta da quando era apparsa nella scena politica.
Ma sulla cerimonia d’abiura, comunque, aleggiavano sinistri presagi: gli inglesi sembravano delusi di quella conclusione incruenta, che, comunque la si giudichi, aveva salvato la vita alla Pulzella. Sembravano irritati, in particolare, il conte di Warwick, il reggente di Francia duca di Bedford, gli inquisitori stessi. Nell’entourage del vescovo, a qualcuno scappò che non c’era da preoccuparsi, l’eretica sarebbe stata riacciuffata.
Forse, ma si tratta di sole supposizioni, l’epilogo, così desiderato dai suoi carcerieri, fu provocato dalla delusione di Giovanna, cui era stata promessa la consegna ad un istituto religioso, e non agli aguzzini inglesi; forse, semplicemente, era una decisione sofferta, ma meditata con calma; o magari gli abiti maschili, che permettevano la difesa della sua verginità, e che costituivano il segno visibile della sua chiamata, l’attraevano troppo per potervi rinunciare. Frate Martin Ladvenu sostenne di aver appreso da lei che un inglese aveva tentato di farle violenza, da cui l’abito virile l’avrebbe protetta; Jean Massieu, invece, si disse certo che tre giorni dopo la cerimonia, di domenica, i carcerieri le avessero lanciato in un sacco le sue vecchie vesti, privandola di quelle femminili.
E, d’altra parte, sembra davvero improbabile che un carcerato potesse godere della libertà di decidere il proprio vestiario.
Comunque sia, il 27 maggio, festa della
Trinità, il vescovo di Beauvais fu informato della
cosa: Giovanna era tornata a vestirsi con abiti maschili, dichiarandosi perciò
recidiva; e
Interrogata, immediatamente, ritrattò la sua abiura: “Tutto quello che ho detto e ritrattato, l’ho fatto solo per paura del fuoco.. Non ho mai detto né inteso dir nulla per rinnegare le mie apparizioni, cioè che si trattava delle sante Margherita e Caterina.. di quello che stava scritto nella formula di ritrattazione, non ho capito una sola parola! E poi, proprio in quel momento, dissi che non intendevo ritrattare nulla, qualora dispiacesse a Dio..”. Pare che il vescovo, terminato l’interrogatorio, si sia rivolto scherzosamente agli inglesi presenti: “ Fare well”, disse mischiando le lingue, come per gioco, “state allegri, è fatta..”.
A posteriori, il clima di quei giorni concitati appare misterioso, e sospetto. Forse, questa conclusione andava bene a tutti- o quasi- e anche chi capì, o intuì soltanto, preferì tacere sulla sorte di una ragazza che ormai costituiva solo il giovane relitto di un tempo andato, e, peggio ancora, un ostacolo (eminentemente politico) sulla via della pace.
Qualche assessore suggerì di spiegare a Giovanna le conseguenze della sua azione, ma non c’era più tempo, o forse non c’era mai stato. La macchina della morte non tardò un secondo ad attivarsi, in fretta, furtivamente, come se non aspettasse altro che una fanciulla ventenne indossasse il “suo” abito. Non vi fu neanche un processo: non serviva più.
Giovanna d’Arco, la Pulzella d’Orlèans, fu accompagnata sul rogo il 30 maggio dell’anno 1431, nella pubblica piazza del Vieux- Marchè di Rouen.
Le venne permesso di confessarsi; ed un soldato inglese, per esaudire un suo desiderio, le fabbricò una croce, legando insieme due pezzetti di legno. Frate Isembard de la Pierre corse alla chiesa di Saint- Laurent, e vi prelevò una grande croce astile, che avvicinò al volto della giovane, in modo che, bruciando, potesse vederla.
Un secondo soldato inglese, che si rinfrescava in una taverna poco distante, disse di aver visto una colomba levarsi dal rogo che l’avvolgeva; un altro, accorso per alimentare le fiamme, s’arrestò di colpo, le mani a mezz’aria, sentendo la ragazza, avvolta dal fuoco, urlare più volte il nome di Gesù.
Nel 1456, una nuova sentenza dell’Inquisizione la dichiarò innocente.
Aveva diciannove anni.
Quando Giovanna d'Arco nasce il 6 gennaio 1412 a Domrémy, in Lorena, da una famiglia di poveri contadini, da
circa cinquant'an Quando Giovanna d'Arco nasce il 6
gennaio 1412 a Domrémy, in Lorena, da una famiglia di
poveri contadini, da circa cinquant'anni la Francia è un paese continuamente in
subbuglio, soprattutto a causa dei feudatari che mirano a superare in potenza
il sovrano e sobillati dalla monarchia inglese
che punta conquistare