CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO

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Arab Israeli Conflict 6.png
Israele e i membri della Lega araba.

██ Lega araba

██ Paesi stati in guerra contro Israele

██ Israele

██ Striscia di Gaza e Cisgiordania

Data:

Inizio XX secolo - oggi

Luogo:

Medio Oriente

Esito:

 

Schieramenti

bandiera Israele

Flag of the Arab League.svgLega Araba

Il conflitto arabo-israeliano abbraccia circa un secolo di tensioni politiche e di ostilità, sebbene lo stato di Israele sia stato istituito solo 60 anni fa. Il conflitto, iniziato come uno scontro politico su ambizioni territoriali a seguito della decimazione dell'Impero ottomano, si è tramutato nel corso degli anni da conflitto arabo-israeliano ad un più regionale conflitto israelo-palestinese, anche se il mondo arabo e Israele restano generalmente in contrasto gli uni con gli altri sullo status di questo territorio.

Contestualizzazione geo-politica

Al fine di comprendere a pieno tutte quelle dinamiche che, nel corso del Novecento, hanno dato vita alla cosiddetta "questione palestinese", è innanzi tutto necessario contestualizzare geograficamente e storicamente la regione teatro di tali eventi e, più in generale, quella vicino-orientale.

Con Vicino Oriente (meno precisamente Medio Oriente) si indica convenzionalmente quella zona compresa tra il Mar Mediterraneo, l'Oceano Indiano e il Golfo Persico, all'interno della quale vivono numerose etnie, la maggior parte delle quali è accomunata dalla professione della religione islamica. Tale zona fu per molti secoli parte integrante dell'Impero Ottomano, che si caratterizzò per una politica tendenzialmente sovranazionale, in grado di garantire una discreta autonomia ai diversi gruppi etnici che lo componevano.

La zona assunse straordinario valore strategico (sia economico sia militare) a partire dal 1869, anno in cui fu aperto il canale di Suez: straordinaria opera ingegneristica che avvicinava l'Oriente all'Occidente. Oltre a questo, nella prima metà del XX secolo, furono scoperti immensi giacimenti petroliferi in tutta l'area e ciò rese ancora più interessante il territorio vicino-orientale per le potenze europee che, bisognose di quell'elemento per la loro crescente industria, approfittarono dei numerosi segni di fragilità dell'Impero Ottomano, nonché dell'esito del primo conflitto mondiale per colonizzare l'intera area, imponendo un'occupazione militare di fatto, atta a garantire lo sfruttamento della zona da parte delle società europee. I conflitti non si sono fermati.

Le popolazioni che vivono in tale zona sono da secoli a forte maggioranza araba ma al termine del XIX secolo e, sempre più consistentemente nei primi anni del XX secolo, fu consentito l'insediamento di colonie ebraiche, molte delle quali guadagnate alla causa sionista. A partire dagli anni trenta del XX secolo, e ancor più dopo il termine del II conflitto mondiale e la tragedia dell'Olocausto, la Palestina vide fortemente alterata la sua composizione demografica, con la minoranza ebraica avviata a diventare maggioranza grazie all'acquisto di terreni reso possibile dai fondi concessi ai profughi ebrei sfuggiti alla persecuzione nazista.

Nel 1948, a seguito di un'apposita risoluzione delle Nazioni Unite, su tali terre fu dichiarato lo Stato di Israele, con una prima emigrazione araba palestinese verso le nazioni limitrofe, fortemente incrementata in seguito alla sconfitta patita nel primo conflitto arabo-israeliano, scatenato l'indomani della dichiarazione d'indipendenza israeliana dagli Stati arabi dell'Egitto, della Siria, del Libano, della Transgiordania e dell'Iraq.

 

Gli albori del problema israelo-palestinese

 

Theodore Herzl, promotore del sionismo

Sul finire del XIX secolo il territorio palestinese faceva parte dei governatorati siriani dell'Impero Ottomano ed era a sua volta suddiviso in due Sangiaccati (province ottomane). Già nel 1887, Gerusalemme aveva ottenuto una forma di autonomia dall'Impero Ottomano, a dimostrazione della sua politica sovraetnica e sovraculturale. All'epoca gli Ebrei costituivano un'esigua minoranza (23.000 persone[senza fonte]), integrata con le altre comunità etnico-religiose e, più in generale, con la situazione culturale del luogo.

Intorno alla metà del secolo si era però messo in moto il progetto ebraico mirante a porre fine alla propria millenaria diaspora, frutto di innumerevoli persecuzioni, e a rifondare la nazione permettendo il suo ritorno alla "terra promessa", citata dalla Bibbia, dalla quale era stata espulsa dall'Imperatore romano Tito.

 

Zone di influenza francese e britannica stabilite dall'accordo Sykes-Picot

Con l'esplodere della Prima guerra mondiale e il coinvolgimento dell'Impero Ottomano, molti furono gli israeliti che decisero di lasciare la loro "Terra promessa" per scegliere mete diverse, innanzi tutto gli Stati Uniti, che garantivano migliori condizioni in termini tanto economici quanto di libertà civili.

Il riconoscimento agli ebrei immigranti dall'Europa del diritto di godere di un focolare nazionale in Palestina fu dato dall'allora Ministro degli esteri della Gran Bretagna Arthur Balfour. Nel 1917 egli pubblicò la Dichiarazione Balfour, con cui la Gran Bretagna riconosceva ai sionisti il diritto di formazione di "un focolare nazionale" (a National home) in territorio palestinese, che venne interpretato dagli stessi come la promessa relativa al permesso di costituire uno stato autonomo ed indipendente. Il termine "focolare nazionale", impiegato al posto di un più esplicito "Stato" o "Nazione", era tuttavia ambiguo e la dichiarazione specificava anche che non dovevano essere danneggiati i "i diritti civili e religiosi delle comunità non-ebraiche della Palestina". L'interpretazione della Dichiarazione Balfour sarà subito causa di attriti tra la popolazione araba preesistente (che temeva la costituzione di uno stato ebraico) e i sionisti, che la interpretavano come l'appoggio da parte del governo britannico al loro progetto. Gli stessi britannici, alcuni anni dopo, con il libro bianco del 1922[6], rassicurarono la popolazione araba sul fatto che la Jewish National Home in Palestine promessa nel 1917 non era da intendersi come una nazione ebraica, rimarcando però al contempo l'importanza della comunità ebraica presente e la necessità di una sua ulteriore espansione e del suo riconoscimento internazionale.

Con la fine della guerra, grande fu il dibattito tra le maggiori nazioni vincitrici per decidere il futuro di queste zone, anche alla luce delle direttive del presidente statunitense Woodrow Wilson che condannavano la costituzione di nuove colonie. Alla fine, con gli accordi di San Remo del 1920, si optò per l'autorizzazione da parte della Società delle Nazioni di affidare alla Gran Bretagna e alla Francia Mandati, necessari in teoria per educare alla "democrazia liberale" le popolazioni del disciolto Impero Ottomano.

Se la reazione delle popolazioni arabe (musulmane e cristiane) a tali progetti fu vivace e del tutto improntata all'ostilità, diverso fu invece l'atteggiamento del movimento sionista che, forte delle precedenti promesse fattegli, considerò il Mandato britannico sulla Palestina il primo passo per la futura realizzazione dell'agognato Stato ebraico.

Le proteste della popolazione araba furono ancor più esacerbate per la violazione britannica degli accordi (anch'essi segreti) sottoscritti con lo sharīf di Mecca, al-Husayn b. ‘Alī, col ministro plenipotenziario di Sua Maestà Sir Henry MacMahon, Alto Commissario in Egitto, che aveva promesso, dopo la caduta dell'Impero Ottomano, il riconoscimento agli Arabi dei diritti all'auto-determinazione e all'indipendenza in cambio della loro partecipazione agli sforzi bellici anti-ottomani, e la creazione di uno "Stato arabo" dagli imprecisati confini.

Anche se in realtà la Gran Bretagna era stata in grado di controllare militarmente la zona palestinese fin dal 1917, fu solo nel 1923 che il Mandato entrò effettivamente in vigore e fin dall'inizio cominciarono a sorgere nel Paese vari movimenti di resistenza araba che miravano, al pari dei movimenti irredentistici italiani, all'allontanamento di tutti quanti consideravano stranieri.

Negli anni venti e trenta numerose furono le dimostrazioni di protesta da parte dei movimenti palestinesi, che sovente sfociarono in veri e propri scontri a tre tra l'esercito di Sua Maestà britannica, i residenti arabi e i gruppi armati dei coloni ebrei. Spesso gli attriti non erano dovuti all'immigrazione in sé, ma ai differenti sistemi di assegnazione del terreno: gran parte della popolazione locale per il diritto inglese non possedeva il terreno, ma per le abitudini locali possedeva le piante che vi venivano coltivate sopra (tra cui gli alberi di ulivo, che erano la coltura prioritaria e che, vivendo anche secoli, divenivano dei "beni" passati di generazione in generazione nelle famiglie), di conseguenza molti terreni usati dai contadini arabi erano ufficialmente (per la legge inglese) senza proprietario e venivano quindi acquistati dai coloni ebrei (o loro affidati) appena immigrati i quali, almeno in un primo tempo, erano ignari di questa situazione.

Questo, unito alle regole con cui venivano solitamente gestiti i terreni assegnati ai coloni (la terra doveva essere lavorata solo da lavoratori ebrei e non poteva essere ceduta o subaffittata a non ebrei), di fatto toglieva l'unica fonte di sostentamento e lavoro a moltissimi insediamenti arabi preesistenti.[9]

La politica di Londra tuttavia non mutò, malgrado varie condanne da parte della stessa Società delle Nazioni. Nel 1936, grazie a uno sciopero generale di sei mesi indetto dal Comitato Supremo Arabo, che chiedeva la fine del Mandato e dell'immigrazione ebraica, la Gran Bretagna, dopo tre tentativi falliti di ripartizione delle terre in due stati indipendenti (ma Gerusalemme e la regione limitrofa sarebbero rimasti sotto il controllo britannico), concesse d'imporre un limite a tale immigrazione.

La decisione in realtà fu più che altro formale, visto che l'ingresso clandestino aumentò sensibilmente anche a causa delle persecuzioni che gli Ebrei avevano cominciato a subire da parte della Germania nazista fin dal 1933. Londra vietò inoltre l'ulteriore acquisto di terre, promettendo di rinunciare al suo Mandato entro il 1949 e prospettando per quella data la fondazione di un unico Stato di etnia mista araba-ebraica.

Verso la fine degli anni trenta, dopo la Grande Rivolta Araba e i falliti tentativi di divisione della Palestina in due Stati, sollecitata dalla Commissione Peel, la Gran Bretagna si pentì di aver sostenuto il movimento sionista, che mostrava aspetti inquietanti e violenti e cominciò a negare al sionismo quel discreto appoggio politico che fin lì aveva garantito, producendo il "Libro Bianco" nel 1939 [11]. Ciò indusse pertanto gli ebrei di Palestina a cercare negli Stati Uniti quello che fino ad allora aveva concesso loro l'Impero britannico.

Con la seconda guerra mondiale gli ebrei (con l'esclusione del gruppo della Banda Stern) si schierarono con gli Alleati mentre molti gruppi arabi guardarono con interesse l'Asse, nella speranza che una sua vittoria servisse a liberarli dalla presenza britannica. L'esito del conflitto non valse perciò a modificare la situazione di stallo che sfavoriva la popolazione araba, ancora maggioritaria.

La svolta del 1947 e la nascita dello Stato israeliano

David Ben Gurion, primo ministro alla nascita dello Stato d'Israele

Nel 1947 la Gran Bretagna, provata dalla guerra mondiale e da una serie di attentati, tra cui l'attentato sionista dell'Hotel "King David" di Gerusalemme (organizzato dai futuri primi ministri israeliani Menachem Begin e David Ben Gurion anche se quest'ultimo cambiò idea prima che l'attentato fosse compiuto temendo troppe vittime tra i civili) e dell'Ambasciata britannica a Roma, decise di rimettere il Mandato palestinese nelle mani delle Nazioni Unite, cui venne affidato il compito di risolvere l'intricata situazione.

Spartizione della Palestina secondo il piano dell'Onu

L'ONU dovette quindi affrontare la situazione che dopo trent'anni di controllo britannico era diventata pressoché ingestibile, visto che oramai la popolazione ebraica costituiva un terzo dei residenti in Palestina, anche se possedeva solo una minima parte del territorio (circa il 7% del territorio, contro il 50% della popolazione araba e il restante in mano al governo britannico della Palestina [1]).

Sette di queste nazioni (Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, Olanda, Perù, Svezia, Uruguay) votarono a favore di una soluzione con due Stati divisi e Gerusalemme sotto controllo internazionale, tre per un unico stato federale (India, Iran, Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia), e una si astenne (Australia).

Il problema chiave che l'ONU si pose in quel periodo fu se i rifugiati europei scampati alle persecuzioni naziste dovessero in qualche modo dover essere ricollegati alla situazione in Palestina.

Nel decidere su come spartire il territorio l'UNSCOP considerò, per evitare possibili rappresaglie da parte della popolazione araba, la necessità di radunare tutte le zone dove i coloni ebraici erano presenti in numero significativo (seppur spesso in minoranza [13] ) nel futuro territorio ebraico, a cui venivano aggiunte diverse zone disabitate (per la maggior parte desertiche) in previsione di una massiccia immigrazione dall'Europa, una volta abolite le limitazioni imposte dal governo britannico nel 1939, per un totale del 56% del territorio.

La situazione sarebbe dunque stata ([2]):

Territorio

Popolazione araba

 % Arabi

Popolazione ebraica

 % Ebrei

Popolazione Totale

Stato Arabo

725.000

99%

10.000

1%

735.000

Stato Ebraico

407.000

45%

498.000

55%

905.000

Zona Internazionale

105.000

51%

100.000

49%

205.000

Totale

1.237.000

67%

608.000

33%

1.845.000

Fonte: Report of UNSCOP - 1947

(oltre a questo era presente una popolazione Beduina di 90.000 persone nel territorio ebraico).

La Gran Bretagna si astenne nella votazione e rifiutò apertamente di seguire le raccomandazioni del piano, che riteneva si sarebbe rivelato inaccettabile per entrambe le parti e annunciò che avrebbe terminato il proprio mandato il 14 maggio 1948.

Il 29 novembre 1947 venne votata la risoluzione, a favore votarono 33 nazioni (Australia, Belgio, Bolivia, Brasile, Bielorussia, Canada, Costa Rica, Cecoslovacchia, Danimarca, Repubblica Domenicana, Ecuador, Francia, Guatemala, Haiti, Islanda, Liberia, Lussemburgo, Olanda, Nuova Zelanda, Nicaragua, Norvegia, Panama, Paraguay, Perù, Filippine, Polonia, Svezia, Sud Africa, Ucraina, USA, URSS, Uruguay, Venezuela), contro 13 (Afghanistan, Cuba, Egitto, Grecia, India, Iran, Iraq, Libano, Pakistan, Arabia Saudita, Siria, Turchia, Yemen), vi furono 10 astenuti (Argentina, Cile, Cina, Colombia, El Salvador, Etiopia, Honduras, Messico, Regno Unito, Jugoslavia) e un assente alla votazione (Thailandia).

Voti favorevoli (verde), contrari (marrone), astenuti (giallo) e assenti (rosso) alla risoluzione 181

Le nazioni arabe fecero ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia, sostenendo la non competenza dell'assemblea delle Nazioni Unite nel decidere la ripartizione di un territorio andando contro la volontà della maggioranza dei suoi residenti, ma il ricorso fu respinto.

Cronologia degli eventi

Guerra arabo-israeliana del 1948

La guerra dal 1948 al 1955

La nascita ufficiale dei due Stati in Palestina era stata fissata dall'ONU nel 1948, ma essa non ebbe mai luogo. Infatti, non appena i britannici ebbero lasciato la zona, la Lega Araba, che non aveva accettato la risoluzione dell'ONU, scatenò una guerra "di liberazione" contro Israele.

La guerra arabo-israeliana del 1948 (per gli israeliani "Guerra d'indipendenza, מלחמת העצמאות, per gli arabi "al-nakba", arabo "la catastrofe") è il conflitto che portò nel 1948 allo scontro la componente ebraica della Palestina e la componente araba della stessa regione, appoggiata quest'ultima dalle forze armate di diversi paesi arabi del Vicino Oriente, solidali nell'intento d'impedire - come invece comunque avvenne - la nascita dell'autoproclamato Stato d'Israele.

Spartizione della Palestina secondo il piano dell'Onu

Confini di Israele dopo la guerra dei seu giorni

 

I confini di Israele dopo il ritiro dal Sinai

 

L'ultimo ventennio e i tentativi di normalizzazione

La fine delle guerre arabo-israeliane avviò un timido e incerto progresso di normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico e alcuni dei paesi limitrofi, spesso vanificato da irrigidimenti e da nuove crisi. Nel novembre del 1977 il presidente egiziano Anwar al-Sādāt si reca in visita a Gerusalemme, avviando di fatto il processo di pace tra Egitto ed Israele.

 

Il 13 luglio 2008, alla presenza di 43 capi di stato e di governo, il presidente francese Nicolas Sarkozy lanciò l’Unione per il Mediterraneo (UPM), con una grandiosa cerimonia che aveva l’obiettivo di sottolineare l’importanza del traguardo raggiunto e  l’influenza che il nuovo organismo internazionale avrebbe dovuto esercitare nell’ambito dei rapporti euro-mediterranei.

A quasi due anni da quell’evento, intorno alla metà del maggio scorso, i leader europei hanno annunciato il rinvio a novembre del vertice euro-mediterraneo inizialmente previsto per il 7 giugno a Barcellona, nell’indifferenza pressoché generale della stampa europea e di quella dei paesi della sponda sud del Mediterraneo.

Lo stridente contrasto fra i due episodi sottolinea tristemente come l’UPM sembri destinata a seguire la stessa mesta traiettoria verso l’irrilevanza internazionale che fu percorsa dal Processo di Barcellona, il cui vertice del 2005, in occasione del decennale dell’avvio di quel processo, fu disertato da molti leader arabi.

La ragione ufficiale del rinvio è che si vuole dare la possibilità ai colloqui indiretti tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di raggiungere dei risultati concreti, i quali a loro volta darebbero ulteriore impulso ai lavori dell’UPM.

Ma alla luce del clima di sfiducia in cui tali colloqui sono stati avviati, e delle ripercussioni estremamente negative che l’incidente della flottiglia di Gaza ha avuto a livello internazionale, sembra improbabile che a novembre la situazione possa essere migliore di quanto non appaia oggi.

La vera ragione del rinvio del vertice è però un’altra. L’annunciata presenza del controverso ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman aveva spinto diversi paesi arabi a dichiarare che non avrebbero preso parte ai lavori di Barcellona, mettendo così a rischio l’esito del vertice.

Ancora una volta, dunque, il conflitto arabo-israeliano si rivela fatale per qualsiasi tentativo di partnership euro-mediterranea.

In realtà il progetto originario promosso dal presidente Sarkozy era basato sull’idea di concentrarsi su un numero ben delimitato di progetti concreti – come ad esempio la gestione delle risorse idriche, la creazione di autostrade marittime per il traffico commerciale, e lo sfruttamento dell’energia solare – proponendo una versione “alleggerita” del Processo di Barcellona (ovvero svuotata del suo contenuto politico), proprio per evitare che il processo di integrazione euro-mediterranea divenisse ostaggio dei numerosi conflitti irrisolti presenti nel bacino del Mediterraneo – primo fra tutti il conflitto arabo-israeliano.

Ma così come il Processo di Barcellona era stato “ucciso” dallo scoppio della seconda Intifada nel settembre del 2000, allo stesso modo l’UPM potrebbe essere stata “uccisa” dalla guerra lanciata da Israele a Gaza tra il 2008 e il 2009.

Sull’onda dell’enorme emozione che il bombardamento della sovraffollata enclave palestinese, abitata da circa un milione e mezzo di persone prive di qualsiasi via di fuga, aveva provocato in tutto il mondo arabo, gli incontri di alto livello dell’UPM furono sospesi.

Tuttavia, se la guerra di Gaza ha inferto all’UPM un colpo che potrebbe rivelarsi fatale per il futuro di questo organismo, è però l’intero progetto del presidente Sarkozy che, secondo molti osservatori (soprattutto nel mondo arabo), era viziato da gravi difetti fin dall’inizio .

Sebbene molti leader arabi si fossero recati alla cerimonia inaugurale di Parigi con apparente entusiasmo (secondo alcuni, essenzialmente nella speranza di fare qualche “affare” a livello economico), molti commentatori arabi avevano bollato fin da subito il progetto come un tentativo neocoloniale volto a riaffermare l’influenza francese in primo luogo sui paesi del Maghreb.

L’incidente della flottiglia di Gaza ha sancito l’inedita inimicizia tra Ankara e Tel Aviv, creando una nuova faglia nel tormentato panorama della convivenza mediterranea. Fra l’altro, la Turchia è tra i paesi che sono apparsi meno entusiasti del progetto dell’UPM. Ad Ankara, tale progetto è stato visto come un tentativo da parte francese di liquidare definitivamente il processo di adesione della Turchia all’UE offrendo ai turchi una “sistemazione di ripiego” all’interno del nuovo organismo mediterraneo proposto da Sarkozy. Ora il deterioramento dei rapporti turco-israeliani promette di complicare ulteriormente il panorama della partnership mediterranea.

Dopo aver fornito la scintilla che ha fatto deflagrare la crisi latente fra la Turchia ed Israele, la questione di Gaza rischia di essere all’origine di ulteriori tensioni nel Mediterraneo. L’allentamento del blocco economico imposto alla Striscia non risolve il problema di un’enclave inquinata e impoverita, alla quale è proibito intrattenere normali rapporti con il resto del mondo.

Se Israele per il momento non ne vuole sapere di togliere l’embargo una volta per tutte, l’Egitto dal canto suo non vuole in alcun modo che il peso di Gaza e dei suoi abitanti ricada sulle sue spalle. E’ opinione di numerosi analisti che le politiche israeliane di questi anni abbiano puntato a spezzare qualsiasi legame tra la Cisgiordania e Gaza. Molti esponenti politici in Egitto ritengono che Tel Aviv voglia coronare queste politiche con uno sforzo volto a sbarazzarsi delle proprie responsabilità di potenza occupante nei confronti della Striscia, facendo di tutto per spingere il regime egiziano ad aprire il proprio confine con Gaza e ad assumersi la responsabilità della popolazione che vi risiede.

D’altra parte per il Cairo Gaza rappresenta una minaccia alla propria stabilità interna, sia perché Hamas è un movimento islamico che ha legami con la potente opposizione interna dei Fratelli Musulmani, sia perché la tragica situazione dei palestinesi schiaccia il regime egiziano “tra l’incudine e il martello”, rappresentati rispettivamente dall’opinione pubblica egiziana ed araba, e dal rapporto di dipendenza che il Cairo ha con gli Stati Uniti e (indirettamente) con Israele.

L’ingiustizia è apparsa ancor più rilevante agli arabi perché Israele ha aderito all’OCSE sulla base di statistiche che includono nella propria popolazione anche i coloni che vivono negli insediamenti della Cisgiordania occupata – illegali in base al diritto internazionale – mentre escludono la popolazione palestinese.

Dunque, se per Israele l’ingresso nell’OCSE ha rappresentato un importante segno di legittimazione internazionale in qualità di paese avanzato, per gli arabi ciò ha rappresentato invece una legittimazione dell’occupazione israeliana ai danni dei palestinesi.

Molti commentatori hanno fatto rilevare che l’adesione di un paese che si rifiuta di definire una volta per tutte dei confini che delimitino chiaramente il proprio territorio, e che ha un atteggiamento discriminatorio nei confronti della popolazione palestinese che in tale territorio risiede, rappresenta una palese violazione dei principi su cui l’OCSE si fonda – in particolare il rispetto dei diritti umani e la promozione della democrazia.